Il coach, come ogni operatore di helping profession, si trova ad esercitare ascendente nei confronti del suo interlocutore. E questo  va dosato, senza abusarne e senza prevaricare. Evitando trappole che si presentano sotto forma di tentazioni, scivolate su cui è facile cadere, perché inizialmente gratificano e lusingano entrambe le parti.

Ne proponiamo 5, eccole:

  • Fare il leader, ovvero assumere toni e atteggiamenti da capitano della nave, da guida alpina in mezzo alla bufera di neve. Anche se a volte la tentazione è forte, e il cliente sembra addirittura chiederlo. Il coach è al servizio del suo cliente, non il contrario! Il suo compito è sostenerlo e dargli forza, accompagnarlo, sia nei contenuti dei suoi obiettivi, sia e soprattutto nel modo di gestire la relazione con lui.
  • Compiacere il coachee. Dandogli ragione, accettando che non è in grado di far fronte alle sue difficoltà e cose simili. Perché in fondo è quello che paga, che decide di portare avanti il coaching, o di parlare bene del coach ad altri che possono diventare clienti. La possibile variante consiste nel compiacere il capo del coachee, quando chi paga è l’azienda. Pleonastico dire che non è certo la seduzione la cosa di cui il coachee ha bisogno! E che il contrario di compiacere non è contrastare, ma far emergere soluzioni e punti di vista utili, probabilmente diversi da quelli utilizzati finora.
  • Pensare di possedere la soluzione al problema che si sta affrontando. Perché guardando da fuori è facile farsi un punto di vista, e magari si sono gestiti in passato casi analoghi con altri clienti. Spesso questa onniscienza è illusoria, soprattutto se non si ha una competenza vera sul tema, di tipo consulenziale o professionale, e non solo da coach che si basa su un metodo, sulla capacità di fare domande. E se anche fosse ben fondata, il senso del coaching è far crescere il coachee, non mettergli sul piatto una risposta che avrebbe potuto avere dal capo, da un esperto, da un collaboratore.
  • Sconfinare in altri ambiti. Passare dal piano professionale a quello personale o viceversa, per esempio dalla gestione delle riunioni a alla gestione del rapporto con i figli, o dalla definizione di una dieta a considerazioni generali sul rapporto con la vita e gli affetti. Anche qui, la tentazione di fare il tuttologo è in agguato, ed è lusinghiero sentirsi coinvolti su più fronti. E il cliente può essere contento di allontanarsi da un tema che scotta e lo mette in difficoltà. Il che non esclude che in futuro si potrà fare, ma solo compiendo un passo alla volta, e rinnovando in modo esplicito il patto con il coachee.
  • Accettare obiettivi non definiti. Perché se manca un obiettivo chiaro, manca anche il motivo per fare un coaching, e il cliente sta cercando qualcos’altro. Occorre probabilmente un counseling mirato sull’intero della persona. Oppure un consulente che aiuti a inquadrare il problema aziendale. O un esperto che metta a fuoco una carenza o un desiderio, di natura personale o professionale.

articolo pubblicato anche su Brain Cooperation

Di Cristina Volpi

Coach accreditata ICF e EMCC, Founder del magazine CoachingZone, Master di II livello in coaching e comunicazione Strategica. Ha operato per imprese multinazionali e familiari e not-for-profit, in Italia e in svariati paesi Europei, in USA, in Brasile, in India, lavorando con Pirelli, Studio Ambrosetti, Butera & Partners e come libera professionista; attualmente è volontaria con Sodalitas. Ha pubblicato “Leader, storie vere ed inventate di imperatori, manager e capi” Ed. Il Fenicottero; “C’era una volta il capo” Ed. Fendac; “Bilanci e Veleni” e “Banditi in Azienda” Ed. Guerini; “Sconcerto Globale” con Favero, Ziarelli Ed. Apogeo; “No Smoking Company” con Favero, Ziarelli, Ruggeri, Ed. Kowalski.