Autonomia, terza espressione della formula SCARF proposta da David Rock affrontata negli articoli precedenti.

Per autonomia si intende la percezione di controllo sull’ambiente circostante.

 

La percezione di autonomia genera appagamento. Viceversa, sentirsi eccessivamente controllati corrisponde a una vera e propria minaccia.

Un interessante punto di vista al concetto di autonomia lo offre la psicologia individuale.

Fin dalla nascita, infatti, il bambino oltre alla necessità di essere accudito, sente anche il bisogno di esplorare l’ambiente (l’altro da sé) e il percorso di maturazione sicuro determinerà in lui la capacità di discernere i pericoli dai benefici che il contesto sociale potrà offrirgli.

In questo caso le relazioni primarie assumono un ruolo cruciare nel formare una personalità matura e, nel tempo indipendente, perché l’autonomia è un concetto per nulla banale e scontato nelle organizzazioni e soprattutto negli individui che le compongono.

 

Se, nella sua prima infanzia, il bambino sperimenterà un attaccamento sicuro con le figure genitoriali, allora avrà certamente maggiori possibilità nel costruirsi un’identità solida e indipendente. Al contrario, se ciò non avviene, perché nel contesto primario di relazione vengono innescate dinamiche nocive, allora il bambino sperimenterà altre modalità di attaccamento e di apertura al mondo che saranno di tipo insicuro, evitante e disorganizzato. Come teorizzato da Bowlby nel 1969.

La materia prima su cui lavora la psicologia individuale è la relazione dell’individuo con i problemi del mondo esterno: il sé (corpo, mente e le sue funzioni vitali) e il suo contesto sociale. L’individuo non si rapporta al mondo esterno in modo predeterminato, come spesso la dottrina freudiana affermava. Ma si pone in relazione al mondo esterno in conformità con l’interpretazione che dà a se stesso e alle sue convinzioni, opinioni e preoccupazioni attuali.

Non sono né l’eredità né l’ambiente che determinano la sua relazione con il mondo esterno. L’eredità gli assegna alcune doti, l’ambiente gli fornisce solo alcune impressioni. Queste doti e impressioni e la maniera con cui egli ne fa esperienza, cioè l’interpretazione che gli dà a queste esperienze, sono i mattoni che egli usa, nelle sue specifiche modalità creative per costruire le proprie attitudini verso la vita” (Ansbacher, 1956).

Con questo equipaggiamento emotivo la persona affronta le sfide della vita e i suoi compiti vitali, sviluppando da ciò potenzialità e limiti, equilibri o disfunzioni, personalità di tipo dipendente o più orientate alla ricerca di autonomia.

 

All’interno della definizione di autonomia inoltre, esiste una differenza tra il concetto di percepito e di reale. Anche se si percepisce l’impressione di autonomia, data da fattori ambientali esogeni, non è sempre vero che ciò sia così anche nella realtà.

Un esempio sono le relazioni affettive e sociali: quante volte capita di osservare coppie, famiglie gruppi apparentemente rispettosi degli spazi vitali dell’altro, dove invece governano regole implicite di dominanza e/o di dipendenza?

Le organizzazioni non fanno eccezione. La vera sfida è quella di rendere gli individui che ne fanno parte davvero autonomi e responsabili: facendo leva su valori strutturali come il senso del dovere e non utilizzando solo disciplina e mezzi coercitivi. (Fa eccezione l’ipotesi che tali strumenti siano discrezionalmente orientati verso individui devianti e antisociali).

 

L’autonomia comprende diversi aspetti, come la fiducia e la responsabilità.

In chiave organizzativa una possibilità è pianificare e concordare criteri e confini con i collaboratori. Anziché pensare in termini di bianco e nero, dalla completa autonomia all’assenza di essa.

Una proposta viene offerta da Salati E., Leoni A., e Todisco N., nell’articolo La Neuroleadership. Da capo a manager delle relazioni umane, 2016. Dove affrontano il concetto di autonomia come leva manageriale e ipotizzano alcune azioni concrete che le organizzazioni possono agire in vista di tale obiettivo.

Queste le considerazioni:

  • Concedere libertà nell’organizzazione della propria postazione di lavoro
  • Favorire una gestione più autonoma dell’orario e del flusso di lavoro
  • Imparare a delegare, affidando parte dei propri compiti ai collaboratori, che può altresì aumentarne lo status
  • Dare fiducia alle capacità dei singoli di trovare idee nuove per svolgere compiti abituali favorendo l’innovazione e il problem solving
  • Concedere quote di autonomia crescenti.

 

Tutto ciò inoltre potrebbe favorire il benessere sia percepito sia reale nell’organizzazione, la motivazione professionale, e migliorare lo stile di vita dei suoi dipendenti.

Altrettanto importante, inoltre, sarà sostenere queste trasformazioni attraverso il consolidamento delle competenze di ruolo e il rinforzo dell’identità professionale di ciascuno.

 

 

Bibliografia:

  • Ansbacher L. Ansbacher R. 1956, La psicologia individuale di Alfred Adler, Martinelli & C. Firenze
  • Bowlby J., 1976 (traduzione italiana) Attaccamento e Perdita. L’attaccamento alla madre, collana programma di psicologia psichiatria psicoterapia Boringhieri, Torino
  • Salati E., Leoni A. Todisco N., 2016 La Neuroleadership. Da capo a manager delle relazioni umane, ISPER Torino

 

Di Sara Di Giamberardino

Psicologa psicoterapeuta adleriana, lavora presso ATM di Milano dal 2005 nella Direzione Formazione Selezione Sviluppo e Organizzazione. Si occupa in particolare di progettare ed erogare interventi di formazione relazionale/ manageriale e di selezione delle figure professionali ricercate per i diversi ruoli aziendali. Collabora come volontaria con Dimensione Animale di Rho.