by Giulia Stazzi

Un coaching fatto bene è sicuramente utile, e certamente aiuta a conseguire l’obiettivo. Purché  -però-  questo sia sufficientemente realistico, e le condizioni al contorno sufficientemente favorevoli. Ma non sempre coach e coachee si ricordano di questo -purché-.

Un corso di formazione non trasforma in abili venditori i commessi esausti di una catena di negozi. Un outdoor training, per quanto ben fatto, non garantisce la coesione di una squadra di ricercatori o di manager. Una full immersion di inglese non ci rende immediatamente fluent nella lingua. Un percorso di life coaching non fa automaticamente di noi persone di successo.

C’è un bel post di Tim Brownson, “Let’s stop the self development bullshit, shall we?” uscito qualche anno fa, che ci ricorda che il life coaching, come tutti gli interventi di formazione, non è la bacchetta magica. Che il self development aiuta, ma non opera trasformazioni radicali, e che sono importanti anche il contesto e le opportunità, oltre alla determinazione e alla voglia di farcela.

Ecco perché è importante gestire le aspettative del coachee, che spesso oscillano fra diffidenza (non mi servirà a niente, ma proviamo lo stesso, tanto paga l’azienda) e sogni di grandezza (adesso che mi sono deciso, e che ho trovato la strada giusta, non mi ferma più nessuno). Lo si può fare con le domande.

  • quali risorse occorrono per arrivare alla meta?
  • sono disponibili tutte queste risorse?
  • ha senso assegnare a questo progetto tutte le risorse di cui stiamo parlando?

 

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