5 tentazioni da evitare

5 tentazioni da evitare

Il coach, il counselor, rischiano di cedere alla tentazione di allargarsi, darsi importanza, sentirsi al centro della relazione.

Il coach, come ogni operatore di helping profession, si trova ad esercitare ascendente nei confronti del suo interlocutore. E questo  va dosato, senza abusarne e senza prevaricare. Evitando trappole che si presentano sotto forma di tentazioni, scivolate su cui è facile cadere, perché inizialmente gratificano e lusingano entrambe le parti.

Ne proponiamo 5, eccole:

  • Fare il leader, ovvero assumere toni e atteggiamenti da capitano della nave, da guida alpina in mezzo alla bufera di neve. Anche se a volte la tentazione è forte, e il cliente sembra addirittura chiederlo. Il coach è al servizio del suo cliente, non il contrario! Il suo compito è sostenerlo e dargli forza, accompagnarlo, sia nei contenuti dei suoi obiettivi, sia e soprattutto nel modo di gestire la relazione con lui.
  • Compiacere il coachee. Dandogli ragione, accettando che non è in grado di far fronte alle sue difficoltà e cose simili. Perché in fondo è quello che paga, che decide di portare avanti il coaching, o di parlare bene del coach ad altri che possono diventare clienti. La possibile variante consiste nel compiacere il capo del coachee, quando chi paga è l’azienda. Pleonastico dire che non è certo la seduzione la cosa di cui il coachee ha bisogno! E che il contrario di compiacere non è contrastare, ma far emergere soluzioni e punti di vista utili, probabilmente diversi da quelli utilizzati finora.
  • Pensare di possedere la soluzione al problema che si sta affrontando. Perché guardando da fuori è facile farsi un punto di vista, e magari si sono gestiti in passato casi analoghi con altri clienti. Spesso questa onniscienza è illusoria, soprattutto se non si ha una competenza vera sul tema, di tipo consulenziale o professionale, e non solo da coach che si basa su un metodo, sulla capacità di fare domande. E se anche fosse ben fondata, il senso del coaching è far crescere il coachee, non mettergli sul piatto una risposta che avrebbe potuto avere dal capo, da un esperto, da un collaboratore.
  • Sconfinare in altri ambiti. Passare dal piano professionale a quello personale o viceversa, per esempio dalla gestione delle riunioni a alla gestione del rapporto con i figli, o dalla definizione di una dieta a considerazioni generali sul rapporto con la vita e gli affetti. Anche qui, la tentazione di fare il tuttologo è in agguato, ed è lusinghiero sentirsi coinvolti su più fronti. E il cliente può essere contento di allontanarsi da un tema che scotta e lo mette in difficoltà. Il che non esclude che in futuro si potrà fare, ma solo compiendo un passo alla volta, e rinnovando in modo esplicito il patto con il coachee.
  • Accettare obiettivi non definiti. Perché se manca un obiettivo chiaro, manca anche il motivo per fare un coaching, e il cliente sta cercando qualcos’altro. Occorre probabilmente un counseling mirato sull’intero della persona. Oppure un consulente che aiuti a inquadrare il problema aziendale. O un esperto che metta a fuoco una carenza o un desiderio, di natura personale o professionale.

articolo pubblicato anche su Brain Cooperation

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