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Gli elefanti, a quanto sembra, vanno piuttosto di moda. Almeno nelle scienze cognitive.

George Lakoff, di cui ho parlato in un precedente articolo, ne ha fatto addirittura il titolo di un libro: “Non pensare all’elefante!”, edito in Italia nel 2019 da Chiarelettere, ma in realtà uscito negli Stati Uniti nel lontano 2004. (Prefazione, a proposito di moda, di Gianrico Carofiglio…).

Nel volume, il pachiderma è evocato per introdurre l’idea di framing. Lakoff racconta che, all’inizio dei suoi corsi base di Scienze Cognitive, l’esordio era sempre il seguente esercizio: “Non pensate a un elefante. Qualunque cosa facciate, non pensate a un elefante!”

Potete facilmente immaginare quale fosse l’inevitabile esito della prova. Nessuno studente è mai riuscito a superarla. Perché ogni parola è definita in relazione a un frame (che può includere immagini, definizioni, zanne o altre cose che sappiamo sull’argomento). E negare un frame significa anche, necessariamente, evocarlo.

Lakoff aggiunge, a questo proposito, un consiglio pratico della cui utilità posso testimoniare personalmente: “Quando discutete con un avversario, non usate il suo linguaggio. Il suo linguaggio esprime un frame – e probabilmente non sarà il frame che desiderate”. Potrebbe bastare questo a suggerire la rilevanza dei pachidermi per il coaching.

Ma qui vorrei parlare di un elefante diverso. Quello che fa da protagonista, insieme al suo collega, in una metafora introdotta da un altro giocoliere delle idee, lo psicologo sociale Jonathan Haidt, all’interno di un più articolato discorso sulle scienze morali. Questa la metafora, nelle sue parole.

  • […] La mente è divisa, come un cavaliere su un elefante, e il compito del cavaliere è quello di servire l’elefante.
  • Il cavaliere è il nostro ragionamento cosciente – il flusso di parole e immagini di cui siamo pienamente consapevoli.
  • L’elefante è il rimanente 99% di processi mentali – quelli che passano al di fuori della coscienza, ma in realtà governano la maggior parte del nostro comportamento.
  • […] cavaliere ed elefante lavorano insieme, a volte con risultati modesti, man mano che ci facciamo largo nella vita, in cerca di significato e connessioni”.

Questa immagine estremizza un po’ il punto di vista di Daniel Kahneman, Premio Nobel e uno dei padri delle scienze cognitive, che descrive, a scopo divulgativo, beninteso, la nostra vita mentale come un interplay tra due personaggi: il System I (automatico, rapido, e involontario, ricorda da vicino il nostro elefante), e il System II (legato al ragionamento complesso, faticoso, lento, associato alla volontarietà: il cavaliere).

L’elefante ospita infatti tutti quei processi automatici che hanno guidato la nostra mente per milioni di anni, quando siamo stati solo semplici animali; e continuano a farlo anche oggi in modo pervasivo in tutta nostra vita quotidiana. Tra questi ci sono anche le nostre emozioni, e ciò che chiamiamo intuizione. La nostra risposta immediata al mondo. Avendo avuto a disposizione un periodo di rodaggio e affinamento così lungo, questi processi tendono a funzionare molto bene, molto velocemente, e senza sforzo apparente. Quando, nelle ultime centinaia di migliaia di anni, gli esseri umani hanno evoluto le capacità di ragionamento (e di linguaggio), la natura non ha certo reingegnerizzato il cervello da zero per integrarne le competenze. Non è nelle sue possibilità. L’evoluzione, ricorda Jacob, è uno stagnino, non un ingegnere. Lavora sull’esistente, non from scratch. Da buono stagnino, ha solo potuto innestare una parte sull’altra. Trovandosi, a questo punto, due sistemi abbastanza diversi tra loro, un po’ appiccicati con lo scotch, per così dire. In questa situazione, a chi pensate che l’evoluzione abbia lasciato il comando (relativo) delle operazioni: al vecchio, ma affidabile e perfettamente funzionante elefante, o a un cavaliere neonato? Non c’è stata partita. Ma il cavaliere ciononostante ha continuato ad evolversi rapidamente. Perché la natura l’ha conservato e sviluppato? Perché poteva fare alcune cose molto utili per l’elefante.

Il decision-making dell’elefante, ad esempio, è inchiodato al presente. L’uso del passato per predire il futuro è limitato a quello immediato e locale. La possibilità di formulare scenari alternativi per scegliere il più vantaggioso, sarebbe un bel vantaggio competitivo. Ed ecco il momento di gloria del cavaliere, una vera e propria macchina per l’anticipazione.  Che peraltro è il solo a padroneggiare forme apprendimento complesso (tecnologie e skill) a vantaggio degli obiettivi dell’elefante (sopravvivenza inclusa). Ma, suggerisce Haidt, in una società complessa e interconnessa come quella umana, il ruolo più sorprendente del cavaliere è quello di una categoria spesso sottovalutata e vilipesa: l’ufficio stampa, il portavoce  dell’elefante. Da buono spokesman, si fa in quattro per escogitare convincenti spiegazioni ex-post  per tutto ciò che l’elefante ha fatto seguendo le proprie inclinazioni, e prepara argomentazioni per spiegare ciò che il pachiderma intende fare in futuro. Protegge l’immagine dell’elefante nei confronti dei suoi interlocutori sociali, e anche nei confronti di se stesso. Il tutto, a volte, senza necessariamente sapere cosa l’elefante pensi davvero.

 

Cosa significa, nella metafora, che il compito del cavaliere è quello di servire l’elefante?  Haidt condensa il suo punto di vista in una frase: L’intuizione viene per prima. È l’elefante, depositario dell’intuizione, a guidare il comportamento, nel senso che il suo “parere” arriva prima (i suoi processi sono legati ai circuiti percettivi, ed estremamente veloci). E anche nel senso che “conta” di più: i suoi processi sono legati strettamente ai circuiti della motivazione, e quindi più potenti nell’influenzare i comportamenti. Quelli rappresentati dal cavaliere sono invece connessi più al linguaggio e meno ai circuiti motivazionali. Di conseguenza, il cavaliere ha meno potere di far succedere le cose – se la cava meglio nel ruolo di consigliere.

D’accordo, è un po’ tagliato con l’accetta. Il cavaliere è un servitore, non uno schiavo. A volte può prendere il sopravvento sul suo compagno (ad esempio quando questi non sa che pesci pigliare) o forzare una propria decisione. Ma il messaggio è che il cavaliere è piccolino rispetto all’elefante, e la sua presunta superiorità è spesso quella della mitica mosca cocchiera. Ne consegue la regola centrale:

Se volete far cambiare idea o comportamenti alle persone, parlate prima di tutto all’elefante.

Haidt aggiunge un po’ di regole di funzionamento dell’elefante, tutte corroborate da studi, e in qualche caso già note in ambito psicologico. Eccone qualcuna:

  1. Il cervello valuta istantaneamente e costantemente ogni cosa in termini di minaccia o beneficio potenziale per il proprio sé. Aggiusta poi il comportamento per avere più cose “buone” e meno cose “cattive”
  2. I giudizi sociali e politici sono particolarmente “intuitivi”. Tra le cose che il cervello valuta e monitora, poche sono importanti quanto le altre persone e le relazioni sociali, per ovvi motivi. L’elefante impiega pochi secondi (alcuni sostengono frazioni di secondo) per decidere se avvicinarsi o allontanarsi da una persona. Un giudizio spesso accurato, ma che non di meno può generare errori (cognitive bias) sistematici. Pensate solo al cosiddetto effetto alone, o il beauty bias: un giudizio positivo su un tratto (avvenenza) viene esteso – ingiustificatamente – ad altre caratteristiche o capacità della persona
  3. Il nostro stato corporeo influenza i nostri pensieri (e a volte anche i nostri giudizi morali). Esperimenti dimostrano, ad esempio, che l’immoralità ci fa sentire anche fisicamente sporchi; e, viceversa, lavarci le mani può occasionalmente renderci moralmente attenti.

 

Quando siamo chiamati ad essere il coach di qualcuno ricordiamoci la metafora dell’elefante. Chi decide se accetterà il nostro supporto, se proverà a mettere in pratica i consigli, se accetta di provare ad assumere un punto di vista differente, o stabilisce che continuerà a fare ciò che ha sempre fatto, è l’elefante. È lui che fa accadere le cose. Il cavaliere, nella migliore delle ipotesi, cercherà di cogliere le argomentazioni che proponiamo; ma più spesso farà il portavoce evoluto dell’elefante. È all’elefante, dunque, che dobbiamo parlare. Ogni coach ha, nel tempo, evoluto il proprio armamentario di tecniche e metodologie. Ma attenzione a non perdere di vista l’obiettivo centrale della nostra comunicazione.

Allo stesso tempo, la metafora ci ricorda che, nonostante la reciproca sproporzione, il suo protagonista non è il solo elefante: bensì il microcosmo che esso crea insieme al suo cavaliere.  La salute e la maturità di entrambi  i componenti sono necessari per il buon funzionamento della compagine. Un elefante in forma, con un cavaliere inerme, è la situazione di un bambino. Ma un cavaliere in gran spolvero, con un elefante azzoppato, è una condizione ancora più pericolosa. Vale la pena di ricordare che il caso estremo è quello dello psicopatico: un cavaliere perfettamente normale, in grado di sostenere il ragionamento strategico, ma un elefante incapace di provare qualsiasi emozione che esprima attenzione verso le altre persone.

Ma che l’elefante sia necessario, non solo utile, a dare contenuto e direzione ai ragionamenti del cavaliere, lo sapevamo già. Ce l’aveva detto, ormai molti anni fa, la neuroscienza con Antònio Damàsio.

 

Photo by Sam Balye

Di Augusto Carena

Augusto Carena, ingegnere nucleare, si occupa di Simulazioni di Business, Systems Thinking, Decision Making complesso, e bias cognitivi nelle organizzazioni. Su questi temi svolge da trent’anni attività di formazione manageriale in Italia e all’estero. Con Giulio Sapelli lavora sulle culture d’impresa in progetti di etnografia organizzativa. Ha pubblicato con Antonio Mastrogiorgio La trappola del comandante (2012), sui bias nelle organizzazioni, e Dialoghi Inattuali. Sull’Etica