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Qualche tempo fa la nuova Presidente del Consiglio (destra, 46 anni, donna) e la nuova Segretaria del maggiore partito di opposizione (centro-sinistra, 38 anni, donna) hanno incrociato, per la prima volta, le loro lame retoriche in Parlamento, nel corso di un Question Time. Tra curiosità e tifo pressoché calcistico (la domanda che ossessionava i media era: Chi delle due ha vinto l’incontro?), la chance che l’inconsueto rovesciamento di genere inaugurasse una più dignitosa modalità di confronto è andata – almeno in questa occasione – deserta.

Come sono andate le cose? Tralasciamo il merito dei contenuti. Secondo quanto riportato da un quotidiano, la Segretaria prepara accuratamente i pezzi sulla scacchiera, chiarisce priorità e strategie del proprio partito, argomenta i contenuti dell’interrogazione parlamentare, e muove l’armata all’attacco. La Presidente risponde seccamente che la situazione contestata è tutta responsabilità dell’opposizione (quando era, naturalmente, al governo), senza curarsi di argomentare ulteriormente. Rovesciando, per così dire, la scacchiera. Indovinate chi ha vinto.

Non pensiate che si tratti di una sceneggiatura specificatamente italiota. Nei primi anni 2000 (quelli di George W. Bush, per intenderci), negli Stati Uniti diversi intellettuali liberal hanno cominciato a domandarsi, con crescente e peraltro fondata preoccupazione, per quale ragione i Repubblicani riuscissero a mobilitare con grande efficacia i propri elettori (storici o potenziali), mentre i Democratici si dimostravano del tutto inadatti allo scopo – cosa confermata, d’altronde, dalle elezioni politiche e presidenziali di quegli anni.

In questo dibattito, le voci più interessanti, a mio avviso, sono quelle di due psicologi, affascinati dalla politica, di cui ho già parlato in altri articoli: George Lakoff, nel quadro delle sue teorie della metafora, e lo psicologo Jonathan Haidt, dalla prospettiva di una psicologia morale con forti connotazioni evoluzionistiche. Se le premesse sono necessariamente diverse, le loro conclusioni si assomigliano assai. Seguendo le argomentazioni di Haidt, il risultato dell’analisi è più o meno questo:

  1. I Repubblicani capiscono la psicologia morale. I Democratici, no.
  2. I Repubblicani hanno capito da un pezzo che è l’elefante, e non il cavaliere, a decidere il comportamento politico delle persone. Essi sanno bene come funziona un elefante; e tutti i loro slogan, spot e discorsi puntano dritti alla pancia del pachiderma.
  3. I Democratici sono soliti rivolgere i loro appelli per lo più al cavaliere, illustrando e spiegando razionalmente le politiche che propongono, insieme ai benefici che esse dovrebbero portare; ma in questo modo perdono regolarmente le elezioni (almeno fino all’arrivo di Obama).
  4. I Repubblicani possono far leva in chiave politica su tutti e cinque i fondamenti morali, propensioni istintive che tutti gli uomini e tutte le culture condividono, per quanto declinate secondo modalità a volte profondamente diverse. I Democratici, al contrario, possono sfruttarne soltanto due per mobilitare i propri sostenitori. È quello che potremmo chiamare il vantaggio (morale) conservatore.

 

Se vi sembra tutto un po’ oscuro, avete ragione. Vi devo delle spiegazioni. Se permettete, giusto per non reinventare l’acqua calda, cito un passo di un mio precedente articolo.

“La mente […] è divisa […] in due parti […]. A volte esse cooperano meravigliosamente, ma spesso gli obiettivi di una parte divergono ampiamente da quelli dell’altra.

La nostra parte, diciamo, razionale e cosciente, è un cavaliere, seduto sul dorso di un elefante [che rappresenta, invece, quel 99% dei nostri processi che si svolgono automaticamente, spontaneamente, e senza lasciare traccia nella nostra coscienza]. Con le redini che ha in mano, può dare al pachiderma gli ordini per dirigerlo – destra/sinistra, avanti/ferma. In effetti, quando l’elefante non ha particolari desideri, tutto funziona come da richiesta del cavaliere. Ma se l’animale vuole davvero qualcosa, non c’è partita. Decide l’elefante.

Una volta che il cavaliere si è reso conto che dare di redini serve a poco o nulla, c’è spazio per la dissonanza cognitiva. Quando non riusciamo a conciliare la nostra immagine di noi stessi con il nostro comportamento (cosa che ci rende nervosetti fino a quando il gap non si è chiuso, in un modo o nell’altro), molto spesso prendiamo la via di minor resistenza (indovinate quale). Così il cavaliere spende tutto il suo brillante ingegno per inventare, per sé e per gli altri, le migliori spiegazioni per giustificare a posteriori le scelte dell’elefante. Una mosca cocchiera, per rimanere nel regno animale, che preserva l’illusione di agency. Ma anche, assai utilmente per la convivenza sociale, un portavoce (stile Casa Bianca) del pachiderma, che cerca di convincere il mondo come e qualmente esso abbia scelto bene. Una traduzione moderna della celebre affermazione di Hume, secondo la quale “la ragione è, e deve solo essere, la serva delle passioni, e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di obbedire e di servire ad esse” (e non viceversa […]).”

Dunque, sostiene Haidt – come vedremo a breve anche per la morale – i nostri comportamenti politici sono decisioni, largamente inconsapevoli, dell’elefante, su cui il cavaliere non ha molta voce in capitolo, salvo che per dare una veste argomentativa, ma solamente ex post, una volta che la posizione è ormai irrevocabilmente presa, agli orientamenti del pachiderma. Quando cerchiamo di far cambiare idea a qualcuno, provare a convincere con ragionamenti ineccepibili il cavaliere è essenzialmente inutile, perché egli non ha praticamente alcun potere di persuasione sull’elefante. È come tentare di rendere felice un cane scuotendo forzatamente la sua coda. Il meccanismo causale procede esattamente in senso opposto, e lo scodinzolamento del quattrozampe è solo un effetto (e non la causa) del suo stato edonico (uno dei più famosi articoli di Haidt si intitola, per l’appunto, The Emotional Dog and its Rational Tail – Il cane emotivo e la sua coda razionale). Mentre i Democratici si ostinano a ragionare con i cavalieri, i Repubblicani scansano ogni tentazione intellettualistica, puntando direttamente al bersaglio grosso. E vincono le elezioni.

3 metafore per la mente
Di tanto in tanto, mi capita di tornare a spulciare tra i libri di Jonathan Haidt, uno psicologo morale contemporaneo cui ho accennato in altri articoli.
Non so dirvi in che misura le sue riformulazioni della materia siano condivise nel panorama degli studi sulla morale…

Una partita truccata

Ora, a parte ogni considerazione sullo sconforto o meno di dover essere costretti a simili mezzi per convincere la gente a seguirvi, potremmo utilmente domandarci: ma i Democratici non potrebbero essi stessi seguire la via retorica dell’elefante, onde avere qualche chance in più di successo? Certo che possono. È vero, la cosa potrebbe apparire un po’ oltraggiosa per quella che potremmo chiamare la loro matrice morale, ma a mali estremi, estremi rimedi. E, in effetti, è stata una correzione di rotta in questa direzione a portare, negli anni successivi, al doppio mandato di Obama (prima di scoprire che la lezione non era stata poi compresa davvero a fondo, come dimostrerà la parentesi trumpiana).

Ma, ecco la sorpresa, quando anche Democratici e Repubblicani decidessero di sfidarsi ad armi pari (e cioè inseguendo entrambi i rispettivi elefanti), la partita sarebbe egualmente “truccata”. A favore dei Repubblicani. Provate a seguirmi.

Quando osserviamo il comportamento morale reale  delle persone (quello agìto, che possiamo ritrovare nelle azioni concrete degli individui, non quello postulato nei libri di filosofia o religione), siamo colpiti dalla sua estrema varietà, tra le diverse culture e nel corso della storia. Un padre, ebreo ortodosso a Gerusalemme, desidera per il figlio una vita di studio della Torah, circondato dal rispetto dei correligionari. Non troppo distante, in un villaggio della striscia di Gaza, un padre palestinese sogna per il figlio la morte nell’attentato che gli donerà il paradiso e la riconoscenza eterna del suo popolo. Cos’hanno in comune questi due genitori, a parte una profonda reciproca incomprensione? Eppure entrambi si ritengono, certamente, e a buona ragione, persone profondamente morali. E, probabilmente, per entrambi, il motore di aspettative così estreme e lontane tra loro è il medesimo istinto a prendersi cura, proteggere e ottenere il meglio possibile per il proprio figlio. Come può lo stesso comune istinto manifestarsi in forme così diverse, addirittura contrapposte? Più in generale, è possibile – la tesi di Haidt – che un piccolo numero di fondamenti morali innati, comuni a tutti gli uomini (psicopatici esclusi, forse) generi una varietà così immensa di atteggiamenti morali concreti?

Haidt suggerisce di pensare al modo in cui le infinitamente varie cucine che ritroviamo nei diversi Paesi nascano da poche caratteristiche comuni a ciascun individuo. Fisiologicamente parlando, le papille gustative di ognuno di noi contengono recettori solo per gli stessi cinque gusti (dolce, amaro, aspro, salato e umami – quello del glutammato, per capirci). Eppure non tutti apprezzano gli stessi piatti. Dolce e salato piacciono a tutti, ma la loro combinazione in agrodolce esiste solo in alcune cucine. La cucina lappone e quella palestinese sembrano prodotte da specie diverse. Persino il caffè italiano e l’americano sembrano poco compatibili, pur essendo composti essenzialmente dagli stessi ingredienti.  Per spiegare come gli stessi gusti di base si combinino a generare le preferenze gastronomiche di una specifica persona, dobbiamo addentrarci nella storia della cultura in cui essa vive, nelle abitudini alimentari della famiglia in cui è cresciuta, magari in una accidentale associazione infantile tra l’ingestione di un cibo e un attacco di nausea.

Possiamo pensare a qualcosa di simile per il giudizio morale. Haidt ipotizza che tutti noi siamo sensibili (tramite una sorta di recettori mentali) a cinque fondamenti morali innati (più uno, ma non ne parleremo in questa sede), che pur essendo gli stessi per tutti si manifestano – nei comportamenti – in forme anche molto diverse, persino diametralmente opposte, secondo le culture in cui sono declinate. Come capitoli di un libro, la cui traccia (il fondamento morale) è scritta dai nostri geni, ma la cui stesura finale (il comportamento reale) viene compilata dall’esperienza individuale, e dalle interazioni con la società in cui si vive.

Un esempio di questi fondamenti è proprio la cura e l’attenzione a non fare del male ai propri figli (care/harm). Rispetto a molte altre specie, gli umani sono costretti ad investire molto più pesantemente sulla propria prole (durante la gestazione, nel parto, e per lungo tempo dopo la nascita, essendo i figli non autosufficienti per diversi anni). In questo contesto, l’evolversi di una propensione innata a prendersi cura dei piccoli, e a non far loro del male costituisce dunque un forte vantaggio evolutivo, e una buona ragione perché la natura abbia conservato, e anzi rafforzato un simile istinto. Questo automatismo viene attivato in prima istanza dai tipici segnali di bisogno o sofferenza. Tuttavia, una volta evoluto, può essere fatto scattare anche da segnali che non hanno nulla a che fare con il vantaggio evolutivo originario. Impulsi simili a quelli prodotti dalla vista del nostro bambino possono essere prodotti da un bimbo altrui, o magari da un cucciolo di foca: alcuni trigger – eventi scatenanti – (l’apparire indifesi, certe proporzioni nei tratti somatici che richiamano quelli tipici dell’infante umano) possono far scattare il meccanismo anche a sproposito. Nel corso della storia, e a seconda delle culture, questi trigger cambiano, anche rapidamente (pensate come oggi la violenza sugli animali, o sull’ambiente, scateni reazioni istintive che ai nostri nonni sarebbero sembrate incongrue). E sapere come essi funzionano può volgerli a vantaggio di un fine specifico, come sanno bene i pubblicitari. E alcuni politici, naturalmente.

I partiti sono naturalmente interessati a far sì che i loro punti politici diventino dei potenti trigger dei vostri meccanismi morali. Come facilmente potete immaginare, la Sinistra ha gioco facile nel far leva sul fondamento del care  sopra illustrato, in un quadro di protezione, di tutela, di attenzione verso i deboli che tende spesso ad assumere una prospettiva universalistica. Per la Destra, questa dimensione è lontana dalle proprie corde, ma essa riesce egualmente a sollecitare il meccanismo della compassione rivolgendolo, ad esempio, verso coloro che si sacrificano per il bene della patria – forze dell’ordine, militanti politici o soldati caduti in guerra. Una prospettiva meno universale; più, per così dire, ristretta e locale. Ma egualmente funzionante. Stesso principio, declinazioni largamente differenti.

 

I cinque fondamenti morali di Haidt

Per chi fosse curioso, riassumo brevissimamente gli altri fondamenti morali secondo Haidt.

Fairness/cheating. L’istinto morale evoluto per aiutarci a cogliere i vantaggi della cooperazione limitando i rischi di essere sfruttati dagli approfittatori. Ci spinge a ricercare e apprezzare le persone che emettono segnali di poter essere buoni partner per una reciproca collaborazione; e contemporaneamente a reagire con diffidenza o punizioni in caso di segnali opposti. In chiave politica, a sinistra viene sollecitato da trigger come l’attenzione all’eguaglianza e alla giustizia sociale (Occupy Wall Street); a destra, dalla tendenza molto americana a inquadrare i poveri come fannulloni, o quella più internazionale a vedere i migranti come profittatori.

Loyalty/betrayal. È evoluto in risposta alla sfida di creare e mantenere coalizioni sociali solide. Scatta a fronte di segnali che altre persone siano capaci  o meno di fare gioco di squadra. Ci spinge istintivamente a fidarci dei compagni leali, ma anche a ostracizzare o eliminare chi tradisce il nostro gruppo. Trova facile ospitalità a destra, molto meno a sinistra.

Authority/subversion risponde alla sfida evolutiva di creare relazioni che si avvantaggiano di una struttura gerarchica, rendendoci sensibili a segni di status e ranking, e ai comportamenti rispettosi (o meno) delle persone verso la propria posizione sociale. Anche in questo caso, è facile vedere come una cultura conservatrice abbia vita più facile di quella progressista nel trovare occasioni per attivare questo tipo di risposte.

Sanctity/degradation nasce inizialmente come strumento di difesa rispetto a patogeni e parassiti, spingendoci a considerare alcuni cibi, oggetti, persone, principi, come “intoccabili”. In senso positivo, come talmente “sacri” da dover essere preservati (patria, valori, simboli religiosi). Ma anche in senso negativo, in quanto oggetti, idee, persone che possono portare malattie o corruzione (alla base di molta neofobia, pregiudizi verso stranieri – leggi migranti – e più in generale diversi).

 

Destra – Sinistra 5 a 2

Ogni fronte politico che sia interessato a convincere potenziali elettori a sostenerlo, ha tutta la convenienza a cercare per ciascuno dei propri punti programmatici uno o più dei fondamenti morali che il punto stesso sia in grado di attivare (trigger). Se nel mio DNA politico ho il culto o un sostegno immarcescibile per la patria, posso usarlo per attivare il fondamento di loyalty, che promuove il senso di appartenenza, ma anche quello di sanctity, che supporta una concezione sacra del territorio patrio, e persino l’authority, perfettamente compatibile con una struttura fortemente gerarchizzata dello Stato. Se, al contrario, giustizia sociale e difesa dei deboli sono parte importante del mio sentire politico, non mi sarà difficile far leva sul fondamento di fairness per mobilitare futuri o presenti elettori. In linea di massima, più “appigli” ai fondamenti avrò a disposizione, più facile sarà la mia comunicazione politica.

Ora, quando Haidt è andato a rilevare in quale misura persone conservatrici o liberal prendessero in considerazione ciascuno dei cinque fondamenti nel valutare se qualcosa fosse giusta o sbagliata (l’essenza del giudizio morale, e buona parte di quello politico), i risultati sono stati illuminanti, per quanto molti di noi ne avessero già il sospetto.

Mentre i primi due fondamenti – care, la compassione, e fairness, equità, sono egualmente imprescindibili sia per i conservatori che per i liberal, gli altri tre (loyalty, appartenenza, authority, rispettare le gerarchie, e sanctity, sacralità) sono in grado di mobilitare fortemente i conservatori, mentre vengono per lo più trascurati, o addirittura rigettati, dai liberal. Non possono essere usati per smuovere efficacemente un elettorato progressista.

Dunque, per riassumere, la Destra può contare su una moralità a cinque fondamenti, mentre la Sinistra ne ha una a due fondamenti. Semplice matematica.

Vita dura per i liberal.

Cvd. Come volevasi dimostrare.

Di Augusto Carena

Augusto Carena, ingegnere nucleare, si occupa di Simulazioni di Business, Systems Thinking, Decision Making complesso, e bias cognitivi nelle organizzazioni. Su questi temi svolge da trent’anni attività di formazione manageriale in Italia e all’estero. Con Giulio Sapelli lavora sulle culture d’impresa in progetti di etnografia organizzativa. Ha pubblicato con Antonio Mastrogiorgio La trappola del comandante (2012), sui bias nelle organizzazioni, e Dialoghi Inattuali. Sull’Etica