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È la prima cosa che mi ha insegnato molti anni fa un Marketing Manager, replicando alla mia proposta di ricorrere a un focus group (allora erano molto di moda). “Lascia perdere. Garbage in, garbage out. Mentono tutti. Per darsi un tono, per non fare dispiacere agli intervistatori, perché quella mattina hanno bucato una gomma o fumato qualcosa di strano”. Sappiamo che la gente mente nei sondaggi e nei questionari, a partire dalla propria età, anche quando sa che quei dati verranno trattati col massimo della riservatezza. Figuriamoci quando si esprimono su questioni di ben altra portata. Tipo Brexit o voto politico.

Nel giro di qualche decennio, questa consapevolezza ha fatto strada, tra l’aiuto della ricerca in ambito cognitivo, e la crescente aspettativa di poter saltare a piè pari tutta la logica delle survey lavorando di deep learning e big data.

 

Mentiamo sapendo di mentire?

Sì e no. La questione è ricca di sfumature. Certo è che la posta in gioco è alta, come testimoniano i crescenti investimenti nel campo. Da un lato ci sono gli interessi commerciali: come facciamo a farci dire cosa davvero possiamo offrire alle persone per accrescere le probabilità che diventino (o rimangano) nostri clienti? Sul fronte opposto, torme di ricercatori in ambito psicologico esplorano a fondo il campo, consapevoli ormai da decenni che né l’introspezione, né il resoconto diretto da parte dei soggetti può costituire una base solida per trarre conclusioni scientificamente affidabili su cosa pensano davvero – e soprattutto su come si comporteranno realmente. In mezzo, due categorie che sulla conoscenza degli atteggiamenti delle persone verso gli argomenti più disparati si giocano la sopravvivenza: i sondaggisti – la cui vita sta diventando sempre più affollata di imboscate ad ogni piè sospinto; e le HR nelle organizzazioni.

 

Le ragioni per cui si mente

Ci sono, in linea di principio, due ragioni per cui le persone possono mentire.

  • La prima è che abbiano delle motivazioni sufficienti per farlo (incluse quelle invocate da coloro che sostengono, a vario titolo, che questa sia la vera natura degli esseri umani). Come vedremo tra poco, il paesaggio è davvero variegato, e gli psicologi vi si sono spesso avventurati, anche se non saprei dire (per mia ignoranza, naturalmente), con quale sistematicità lo abbiano esplorato.
  • La seconda ragione è che in alcuni casi, anche sotto tortura, non potremmo dire la verità: perché, semplicemente, non la conosciamo. O, per essere più precisi, non ne siamo consapevoli. È il mondo fatato dell’inconscio adattivo, e dei bias cognitivi.

Di questo lato della questione mi sono occupato solo occasionalmente, ma naturalmente la cosa mi incuriosisce. Sul mio comodino ho da tempo un libro della psico-star Dan Ariely, dal titolo eloquente: The Honest Truth About Dishonesty: How We Lie to Everyone – Especially Ourselves. Se è bello e interessante solo metà dei precedenti, sarà un piacere che già pregusto. Vi farò sapere.

Nel frattempo, la pista dei bias mi ha condotto a una gustosa ricognizione delle bugie, diciamo così, a lettura multipla, in una serie di nuance che va dall’innocenza all’autoinganno. È andata così. In un precedente articolo parlavo di un test, sperimentato ormai da milioni di persone nella sua versione online, che ci aiuta a disseppellire, attraverso l’esperienza diretta, alcune forme di discriminazione di cui siamo portatori sani. Che cioè, in tutta onestà, non riconosciamo volentieri a noi stessi (https://www.linkedin.com/pulse/siamo-tutti-razzisti-diversity-cognitive-bias-augusto-carena). Lo IAT (Implicit Association Test) è stato sviluppato nel 1994 da Anthony Greenwald e Mahzarin Banaji con l’idea di esplorare alcuni dei punti ciechi dei nostri atteggiamenti inconsci aggirando le espressioni verbali dei soggetti, e misurando invece differenze nell’esecuzione di task di categorizzazione relativamente semplici. Per chi volesse saperne di più, suggerisco un tour personale su uno dei siti IAT (ad esempio Harvard, basta cercare sulla rete IAT Harvard italiano). Nell’introdurre le ragioni per cui lo IAT ha costituito un passo avanti nella ricerca sui temi della diversity a 360°, i due psicologi fanno un divertente resoconto delle bugie che raccontiamo, e ci raccontiamo, in un arcobaleno di frottole colorate.

 

Bugie Bianche

 

Perché, dicono Greenwald e Banaji, certamente siamo tutti persone oneste, e questa è anche l’immagine che abbiamo di noi stessi. Per cui, se vi chiediamo quanto spesso vi capiti di rispondere a domande con risposte che sapete non essere vere, potreste sentirvi forse sentirvi un po’ offesi, ed essere tentati di rispondere “mai”. Salvo ripensarci un po’, e correggere in “di rado”. Forse. Che dire allora della risposta che date all’amico che rivedete dopo vent’anni, e vi chiede se lo trovate invecchiato?

C’è poco da discutere. È proprio necessario indicare la pancetta, o domandare “che fine ha fatto quella chioma leonina?”. Siamo uomini o caporali? Non vogliamo urtare la sensibilità degli altri. E, in fondo, giureremmo che gli altri, a loro volta, non si aspetterebbero esattamente una risposta sincera a tutti i costi. Certe domande, con le relative risposte, sono “carezze” reciproche, a partire dal “come stai” di ordinanza.

Sono quelle che chiamiamo (come peraltro gli anglosassoni) bugie bianche, piccole panzane concepite a fin di bene. Modeste deviazioni da una verità spiacevole che in fondo non intaccano l’immagine di persona fondamentalmente onesta che teniamo a conservare su noi stessi.

 

Bugie Grigie

 

Certo, il candore non è di tutte le situazioni. Provate con questo esempio, suggerito dai due autori. “Cosa stavi sognando mentre sospiravi nel sonno?” chiede il marito al risveglio. Non credo rispondereste “il mio ex”. E quando dichiarate a un mendicante di essere (non è vero) senza spiccioli, mi spiace proprio?

Beh, proprio innocenti queste bugie non sono. È vero, possiamo dire, stiracchiando un po’ l’argomentazione, che sono motivate dall’intenzione di non ferire i sentimenti altrui (ad esempio quelli del mendicante, per non dichiarare con rudezza: non ci penso proprio!). Ma viene il dubbio che i sentimenti che non vogliamo urtare siano in realtà i nostri (l’imbarazzo di una confessione), e che la salvaguardia della faccia altrui sia in fondo un comodo paravento. Chiamiamole bugie grigie.

Finito l’arcobaleno? In senso tecnico, non è neanche cominciato (da esperto di ottica so che bianco e grigio non sono colori). Ma ci tocca rimanere in questa finzione metaforica, perché la prossima categoria è quella delle colorless lies, bugie incolori, invisibili. A colui che le racconta, oltre che a coloro cui vengono raccontate.

 

Bugie invisibili

Qui cominciamo ad avvicinarci al campo d’azione dell’IAT, anche se non ci siamo ancora. Le bugie invisibili sono quelle in cui il racconto viene distorto quanto basta per non confessare a noi stessi piccole cose che preferiremmo non sapere di noi. Tipo catalogar(ci) un piattone di patatine con maionese come “verdura” (“ma sì, verdura, contorno, che differenza c’è”). O giustificare la piccola cresta sulle note spese (“ma sì, sai quante volte non ho esposto caffè e altre piccole spese nei viaggi precedenti?”). Non è che non sappiamo fare i conti delle calorie o degli acquisti. È che abbiamo un’immagine di noi stessi (verso di noi, prima che verso gli altri) da preservare – come spiegherebbero gli psicologi, che conoscono bene questo lapsus sotto il nome di self-deception.

 

Bugie rosse

I colori veri tornano quando la posta in gioco si fa alta, con il più sanguigno di tutti. Greenwald e Banaji chiamano infatti bugie rosse quelle che potenzialmente conferiscono vantaggi riproduttivi e di sopravvivenza a coloro che le raccontano. Con questa definizione, gli autori alludono all’idea che molti nostri comportamenti possano avere una base evolutiva; configurazioni genetiche che hanno favorito le chance di riproduzione dei nostri pro-pro-ecc.-genitori (inclusa la probabilità di rimanere vivo fino all’età fertile) hanno modo di essere trasmesse alla progenie, e quindi diventare dominanti rispetto a quelle che simili vantaggi non portano.

È diventato comune tra gli addetti ai lavori riferirsi alla selezione darwiniana con un verso di Tennyson, che parla di “Natura, rossa di zanne e di artigli”; da qui la denominazione di questi tipi di errori. Che variano dalla totale inconsapevolezza (non sono in fondo bugie rosse il mimetismo di piante o insetti?) al comportamento artato di chi, in cerca solo di un compagno di letto, è pronto a dichiarare inesistenti sentimenti d’amore, millantati patrimoni o subdole lusinghe – creandosi, con ogni probabilità, una chance di riproduzione maggiore di chi va in giro dicendo la pura verità (“verresti a letto con me?”).

Ma le bugie più interessanti, credetemi, sono le bugie blu.

Bugie Blu

 

Il colore che gli autori attribuiscono loro, questa volta, è un po’ più difficile da spiegare, perché deriva da una locuzione anglosassone (true blue) che allude all’affidabilità. Anche qui una categoria a due facce.

Le bugie blu sono quelle che raccontiamo – udite, udite! – quando ciò che diciamo, strettamente parlando, è falso; ma esprime un contenuto più vero di quanto sarebbe ciò che diremmo se dovessimo dire la pura verità. Complicato? Un esempio può chiarire.

Alla riunione. Il manager: “Avete letto la documentazione preparatoria che vi ho mandato via mail?”. Risposta: “Ma certamente, ci mancherebbe altro!”. Bugia blu: in realtà, questa volta, non ci siete proprio riusciti. Ma, con la vostra risposta, avete voluto comunicare: Se proprio dovessi dire la verità, non l’ho fatto. Ma non voglio che Lei creda che io sia un tipo superficiale. Sono una persona seria, che si impegna e crede nel suo lavoro. Le ho risposto diversamente solo perché altrimenti avrebbe potuto farsi un’idea sbagliata, una piccola bugia per farle capire quale sia la SOSTANZIALE verità.

In questo periodo di pandemia e vaccinazioni, una domanda ha generato bugie blu  in quantità industriali, e di segno opposto. “Ti sei vaccinato?”.

Alcuni pro-vax potrebbero aver risposto così. Bugia blu: “Ma sì, cosa credi”. Verità: “All’ultimo momento ho avuto paura; aspetto ancora un po’, vedo come va, ecc.”. Messaggio nascosto: “Beh, dai, è come se l’avessi fatta, sono uno che crede nella scienza, sicuramente alla prima occasione…”.

Diversi no-vax, d’altra parte, potrebbero aver reagito come segue. Bugia blu: “Ma sei mica matto? Ti sembro uno che si fa infinocchiare così?”. Verità: “Spero che non vengano a saperlo, ma il green pass mi serve per lavorare, mica vivo di rendita come qualcuno di loro!”. Messaggio nascosto: “Se vi dicessi che è stato un caso di forza maggiore perderei di credibilità… Ma, credetemi, non per questo non sono più dei vostri!”.

Anche qui, abbiamo un ottimo paravento per deviare l’attenzione dalla vera ragion d’essere di queste bugie. Ma davvero crediamo di dirle per garantire agli altri di poter accedere alla nostra reale essenza, cioè a vederci come noi (del tutto onestamente) vediamo noi stessi?

Forse ogni tanto dovremmo essere un po’ meno indulgenti verso noi stessi, ed ammettere che le bugie blu sono in realtà stratagemmi neanche troppo sofisticati per produrre negli altri un’impressione più favorevole di noi stessi. Non a caso, gli psicologi conoscono bene questa nostra tendenza: la chiamano impression management.

Impression management e bugie blu

L’impression management è una forma di strategia consapevole, ma anche un insopprimibile necessità per molti di noi. È l’incubo dei sondaggisti, che sanno ormai che c’è una frazione niente affatto trascurabile di rispondenti in grado di mentire sistematicamente sulla propria età, per non parlare del reddito, anche in presenza di garanzie assolute sull’anonimato delle dichiarazioni. Siamo mentitori abituali?

Se lo siamo, come avete visto, lo facciamo per un ampio numero di ragioni. E abbiamo lasciato fuori, ovviamente, tutte le bugie che raccontiamo per interesse, per stupire, per rallegrare una serata, e così via.

Ho l’impressione che, tra tutte queste categorie, quella delle bugie blu sia in rapida espansione. Il motivo?

  • Bugia blu: “Sinceramente, non saprei”.
  • Verità nascosta: “La crescita, impetuosa, e troppo poco accompagnata da senso critico, del politically correct”.

 

Photo by Guy Stevens

Di Augusto Carena

Augusto Carena, ingegnere nucleare, si occupa di Simulazioni di Business, Systems Thinking, Decision Making complesso, e bias cognitivi nelle organizzazioni. Su questi temi svolge da trent’anni attività di formazione manageriale in Italia e all’estero. Con Giulio Sapelli lavora sulle culture d’impresa in progetti di etnografia organizzativa. Ha pubblicato con Antonio Mastrogiorgio La trappola del comandante (2012), sui bias nelle organizzazioni, e Dialoghi Inattuali. Sull’Etica