Murphy & Bias

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Negli anni ’80, un oscuro scrittore di nome Arthur Bloch scalò le classifiche dei libri venduti in tutto il mondo con un volume semiserio, intitolato “la legge di Murphy”. Non era la prima volta che ne sentivo parlare. L’avevo già incontrato in un contesto del tutto diverso, il romanzo “Even Cowgirls Get the Blues”, di Tom Robbins. Questa la citazione:

Ricordata alla Contessa la legge di Murphy, secondo la quale se qualcosa può andare storto, andrà storto, lo psichiatra non iscritto all’albo lo introdusse poi alla legge di Robbins, secondo la quale qualsiasi cosa vada storta può essere usata a tuo vantaggio, sempre che vada storta a sufficienza”.

Ma, in realtà, il mio primo incontro era stato durante la tesi di ricerca nel laboratorio laser, quando un esperimento accuratamente preparato era stato mandato a monte dal cinturino metallico di un orologio da polso. “Murphy” fu il laconico commento del mio relatore.

 

La storia

Sull’origine della legge circolano molte versioni, ricostruite a volte con un surplus di fantasia. Una delle più accreditate sembra, in estrema sintesi, la seguente. 1949: base dell’Air Force di Edwards, California. Esperimento per verificare l’effetto della decelerazione sulla fisiologia umana in un crash aereo. Dopo qualche insoddisfacente prova con manichini, si giunge alla conclusione che un esperimento su un umano sarebbe più probante. Così il Colonnello Stapp si offre volontario: viene assicurato a un carrello che viene sparato fino a oltre 1.000 km/h (in 5 secondi), e poi arrestato bruscamente. A misurare le forze gravitazionali cui è sottoposto, 16 sensori, ciascuno dei quali può essere configurato in due sole posizioni: una giusta, e una sbagliata. Per dare un’idea, ai livelli massimi di decelerazione (oltre 40G) che Stapp sperimenta, la sua forza peso arriva a 2.800 kg (molto di più di quanto accada in una gara di Formula 1).

La buona notizia è che Stapp se la cavò con una commozione cerebrale, e sanguinamenti vari, ma ne uscì vivo. La cattiva è che, quando andarono a vedere i risultati tecnici del test, scoprirono che i sensori non avevano registrato assolutamente nulla.

L’eponimo Capitano Edward Murphy, che aveva progettato l’esperimento, dopo un’accurata ispezione, scoprì che il tecnico dei sensori aveva sbagliato il loro montaggio: non di uno, o due di essi, ma di tutti quanti. Gelido, davanti a Stapp, Murphy enunciò la prima versione della legge che porta il suo nome: “Se ci sono due modi di fare qualcosa, e uno di essi porta al disastro, lo farà”. Impressionato dall’osservazione, e dotato di uno spirito di marketing più spiccato, in una conferenza stampa Stapp riconobbe il credito al Capitano Murphy, limitandosi a formulare la sua “legge” in una forma più catchy: “Whatever can go wrong WILL go wrong”.

Inutile proporvi esempi quotidiani: ciascuno di noi potrebbe elencarne infiniti. D’altra parte, basta guardare ai recenti fatti della politica italiana o delle relazioni internazionali per trovarne espressioni cristalline.

La Legge di Murphy è una vera legge?

È facile immaginare che provare o al contrario confutare la legge di Murphy in laboratorio non sia la cosa più facile di questo mondo. Per definizione, un esperimento per convalidarla, potendo andare male, andrà male (almeno secondo quella stessa legge di Murphy che vorremmo corroborare). Una specie di paradosso del mentitore in chiave contemporanea. Senza contare il costo psicologico e materiale dei disastri che verrebbero prodotti in ciascuna sessione sperimentale di test.

Nonostante questa probabile indecidibilità della “teoria”, la legge di Murphy, fin dal suo esordio, ha incuriosito fisici e matematici, impegnandoli, tra il serio e il faceto, in tentativi se non altro “teorici” di verificarne la plausibilità. Per restare sul leggero, nel 2005 Mondadori ha edito un “Perché il toast cade sempre dalla parte imburrata? La brillante spiegazione scientifica delle Leggi di Murphy” di Richard Robinson. Uno spiritoso ha chiosato: “Se il toast cade sempre dal lato imburrato, e i gatti cascano sempre in piedi, che succede quando leghiamo un toast con la faccia imburrata verso l’alto sulla schiena di un gatto e li facciamo cadere?” (Risposta: il moto perpetuo – Paradosso del gatto imburrato, John Frazee).

La Legge di Murphy è un bias cognitivo?

Qualcuno lo pensa. Difficile confermarlo sperimentalmente, però, come abbiamo visto. Ricordiamo che un bias è universale (ma siamo sempre tutti propensi a interpretare in questa chiave gli eventi nefasti?), sistematico (overconfidence, optimism bias, confirmation bias sembrano però puntare in direzione opposta), prevalentemente inconsapevole (e qui ci siamo). A mio avviso sembra più una questione legata ai tratti caratteriali di ciascuno di noi che non ad un “baco” profondamente innestato nel nostro software mentale. Ciò non toglie che sia tuttavia un tic molto ricorrente, in grado spesso di influenzare il nostro comportamento: in molti casi anche solo perché “sentiamo” che in fondo c’è del vero.

Piuttosto, appare probabile che tra i suoi meccanismi si annidino dei veri e propri bias cognitivi acclarati.

  1. Confirmation bias: tendiamo, attivamente ma inconsapevolmente, a ricordare eventi e argomentazioni a favore di ciò di cui siamo convinti (in questo caso, che se qualcosa potrà andare male, lo farà), a scapito di interpretazioni opposte. Dunque, se siamo di natura pessimisti, Murphy si farà sempre più spazio nella nostra mente.
  2. Availability bias: consideriamo più probabili gli eventi che affiorano alla nostra coscienza più facilmente. È più comune che ci torni in mente quella volta in cui siamo usciti senza ombrello e abbiamo preso un acquazzone, che non quelle in cui invece NON ha piovuto.
  3. Selective memory bias: eventi carichi di emotività si ricordano più facilmente di quelli più neutri e banali. Ma:
  4. Negativity bias: gli eventi di natura negativa generano valenze emotive più intense degli equivalenti eventi positivi (un caso legato alla percezione asimmetrica di guadagni e perdite è quello della loss aversion, un altro bias potente). Dunque, per i punti 3 e 4, Murphy trova forti alleati.

Tutta questa serie di bias contribuisce a ridurre la nostra “esperienza immediatamente disponibile” ad un campione di eventi fortemente distorto (biased, in inglese). Su questa situazione si innesta poi la insopprimibile tendenza della nostra mente a rifiutare casualità e ambiguità, che ci spinge sistematicamente a ricercare un senso anche dove questo non esiste. Il risultato è la

  1. Illusory correlation: vediamo correlazioni dappertutto. Questa è la ragione più diretta per cui crediamo nella legge di Murphy (è anche alla base della scaramanzia). Per quanto possa apparire assurdo, a posteriori nel nostro retrocranio si fa strada l’idea che lasciare a casa l’ombrello sia correlato all’acquazzone improvviso (nella scaramanzia, caso estremo, è la rottura dello specchio a causare sette anni di guai), Peccato che, per valutare correttamente la correlazione tra ombrello e pioggia, dovremmo considerare gli episodi in cui siamo stati sorpresi da un temporale, PIU’ quelli in cui NON ci siamo bagnati, riportando il loro rapporto a quello delle coincidenze casuali: pressoché zero. I conti, vedrete, torneranno.

 

Ma non c’è niente di utile nella legge di Murphy?

Beh, qualcosa forse sì.

Ogni project manager sa che una buona pianificazione non è quella che assume che le cose vadano tutte (sempre più teoricamente) secondo i meccanismi del best case, ma quella che “tiene” anche a fronte degli incident e dei disallineamenti che potranno prodursi nel corso dell’esecuzione (vale anche per molte delle nostre avventure quotidiane). Ma negli ultimi decenni, la crescita esponenziale della complessità e della stessa tecnologia ha reso, per le generazioni che non sono cresciute in questa tempesta, difficile non sottovalutare abbondantemente la frequenza e la rapidità con cui gli imprevisti possono manifestarsi. Così, una moderata ossessione per la murphologia, tutto sommato può aiutare a non essere presi alla sprovvista.

Con juicio, però. Le ossessioni paralizzano.

 

photo by Fernando Andrade

Di Augusto Carena

Augusto Carena, ingegnere nucleare, si occupa di Simulazioni di Business, Systems Thinking, Decision Making complesso, e bias cognitivi nelle organizzazioni. Su questi temi svolge da trent’anni attività di formazione manageriale in Italia e all’estero. Con Giulio Sapelli lavora sulle culture d’impresa in progetti di etnografia organizzativa. Ha pubblicato con Antonio Mastrogiorgio La trappola del comandante (2012), sui bias nelle organizzazioni, e Dialoghi Inattuali. Sull’Etica