Un collaboratore svogliato non è solo un problema del/della team leader, riguarda tutta la squadra. Occorre intervenire appena possibile agendo su due piani: quello personale e quello organizzativo. 

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Quella sera, una volta rientrata a casa dal lavoro, Cristina decise di prepararsi uno di quei piatti che spesso erano oggetto della sua cena, perché lei amava moltissimo la salsa di soia. 

Era un piatto veloce, con pochi ingredienti, ma di qualità. La carne del pollo, dal sapore delicato, si prestava benissimo ad essere utilizzata insieme alla salsa di soia e, grazie al miele e allo zenzero fresco, assicurava un sapore semplicemente delizioso alla pietanza. 

Prepararsi la cena era per lei una attività rilassante in quanto la scelta degli ingredienti e del piatto da realizzare la aiutava a scacciare i cattivi pensieri e lo stress, donandole un vero rilassamento e un senso di pace e armonia. 

Che la cucina e il rilassamento siano uno la conseguenza dell’altro è comprovato da uno studio scientifico pubblicato sul Journal of Positive Psychology. La ricerca prende in esame il benessere che le attività fisiche creative donano all’essere umano e la cucina è proprio una di queste. 

D’altronde ansia, preoccupazione, stanchezza, stress, timore, angoscia sono molte volte quasi la regola al lavoro, specialmente quando si è leader di un team in cui vi è la presenza di un collaboratore/una collaboratrice negligente, che crea spesso problemi e difficoltà alla squadra. 

Era questo che negli ultimi tempi preoccupava Cristina, una data manager, che da quasi un anno era la responsabile di un team che aveva il compito di rendere digitali dati e informazioni necessari per sviluppare le operazioni aziendali. Come è noto, le attività di raccolta e gestione dei dati informatici risultano utili per molteplici fini, come ad esempio ottenere informazioni sul comportamento dei clienti oppure implementare e automatizzare i processi di business per renderli più efficienti. 

Il cruccio di Cristina era Roberto, un suo collaboratore, che alla prova dei fatti si era manifestato una persona poco affidabile e con scarsa di motivazione a svolgere i propri compiti. 

Ciò lo portava a commettere errori e a non rispettare le scadenze. Per di più si era dimostrato refrattario a ogni sollecitazione; per Cristina questa situazione era diventata più che una semplice frustrazione quotidiana, perché questo modo di fare sovraccaricava il lavoro suo e quello degli altri componenti del team, chiamati a sopperire ai suoi errori e/o ai ritardi nello svolgimento delle attività a lui assegnate. 

Si rendeva anche conto che questo comportamento di Roberto poteva a lungo andare influenzare negativamente persino la sua carriera. 

L’intervento sul piano personale 

Cristina aveva cercato di individuare la causa principale dell’apatia di Roberto e aveva concordato con lui il momento per una conversazione sull’argomento. 

Nell’occasione gli aveva espresso la sua preoccupazione e con parole misurate gli aveva evidenziato che il suo comportamento era inappropriato in quanto costringeva gli altri componenti del team a farsi carico delle sue mancanze. 

Lo aveva quindi incoraggiato ad aprirsi riguardo alla ragione di tutto ciò, facendogli domande a risposta aperta e attendendo i suoi commenti con calma e pazienza. 

Dal colloquio era emerso che la sua apatia non era causata da qualcuno o qualcosa in particolare e non era stato possibile identificare la causa specifica del suo comportamento. Per stimolare la sua motivazione, Cristina gli aveva anche proposto dei corsi di formazione per sviluppare ulteriormente alcune sue capacità. Avevano quindi concordato un nuovo incontro sull’argomento a distanza di un mese. 

Quella sera, passate tre settimane dal colloquio avuto con lui, Cristina poteva affermare che il comportamento di Roberto non era cambiato granché, e questo la impensieriva non poco. 

Tant’è vero che nonostante la preparazione della cena l’avesse coinvolta intensamente rendendo così possibile un momentaneo distanziamento da aspetti meno piacevoli della vita, la problematica rappresentata da Roberto tornava di quando in quando ad affacciarsi alla sua mente. 

Dopo aver gustato la cena, Cristina aveva tutta l’intenzione di liberarsi da questo pensiero per il resto della serata e già pregustava il momento in cui si sarebbe concessa un bicchierino di Zibibbo di Pantelleria, un vino da meditazione, che per essere apprezzato nelle sue molteplici sfumature richiede tempo e quindi va sorseggiato con calma e assaporato lentamente. «Magari potrebbe essere il momento buono per farmi venire qualche idea su come risolvere il problema con Roberto» pensò tra sé. E subito dopo: «… maledizione … sto subendo l’effetto orso bianco!!»(*) 

In quel mentre squillò il telefono. 

Era la sua amica Anna, ricercatrice in una università, dove gestiva un progetto di ricerca sulla superconduttività. Cristina non la sentiva da un po’ e dopo i convenevoli iniziali le venne spontaneo accennare a ciò che la impensieriva in quel momento: un collaboratore difficile, per l’appunto. 

Anna ascoltò attentamente il racconto di Cristina per poi commentare: «Le persone non cambiano su invito. È vero che i cambiamenti sono possibili, ma deve essere la stessa persona a voler cambiare e solitamente richiedono tempi molto lunghi. In ogni caso, può succedere che col tempo si riescano ad attenuare i comportamenti disfunzionali o migliorarli, ma è molto difficile sradicare le caratteristiche intrinseche di una persona. Quindi agendo sul solo piano personale potresti anche dover aspettare a lungo prima di poter apprezzare risultati significativi di miglioramento». 

Concluse poi dicendo: «Qualche anno fa ho avuto nel mio gruppo una situazione analoga». 

Raccontò quindi a Cristina la sua esperienza e diede spiegazioni su come aveva fatto a risolvere il problema. 

La prima cosa era stata quella di meditare sul proprio comportamento nei confronti del collaboratore: si era chiesta se fosse stata percepita da parte sua come una minaccia, anche se non era certamente questa la sua intenzione. Concluse che non poteva essere questa la ragione dell’apatia del collaboratore… più volte si era rivolta con entusiasmo al team dicendo: «… abbiamo molto da imparare gli uni dagli altri lavorando insieme» … e al collaboratore in particolare: «… insieme, svolgeremo il lavoro in modo più efficiente». Ci doveva essere un altro motivo a causare il suo comportamento disfunzionale. 

Concordò quindi con il collaboratore una data per parlarne e capire cosa stava succedendo alla sua performance. 

In occasione dell’incontro gli aveva offerto il suo aiuto per superare l’empasse che sembrava attanagliarlo. Gli aveva anche prospettato un possibile affiancamento di una terza persona (seppure temporaneo) con la quale interloquire in caso bisogno, specialmente quando lei fosse stata assorbita da altri impegni. 

Lo aveva anche iscritto a specifici corsi di formazione per accrescere le conoscenze e le abilità nel ruolo da lui ricoperto. Tutto ciò allo scopo di renderlo più efficace/efficiente nonché motivato nelle attività di competenza, in un tempo il più breve possibile. 

Anna era infatti consapevole che era suo compito di leader favorire lo sviluppo dei collaboratori dando loro supporto e stimolandoli a contribuire al conseguimento degli obiettivi del team e dell’intera organizzazione di appartenenza. 

Ciononostante, il collaboratore non aveva mutato il proprio comportamento: a volte non rispondeva alle e-mail, non rispettava le scadenze e ogni tanto non si presentava alle riunioni. Anna si sentiva molto frustrata e anche preoccupata per la situazione. 

 

L’intervento sul piano organizzativo 

Decise allora di utilizzare strategie diverse per risolvere il problema e agire sul piano organizzativo. Ad esempio, lasciare una sostanziale traccia cartacea in tutte le sue comunicazioni con il collaboratore deficitario. 

A questo proposito disse a Cristina: «In ogni comunicazione scambiata con il collaboratore svogliato, ho sempre inserito il resto del team in copia, come pure gli stakeholder pertinenti». 

Di fatto, la traccia cartacea poneva in evidenza che Anna portava avanti il suo lavoro con competenza e professionalità e nel contempo faceva risaltare tutte le occasioni in cui il collaboratore svogliato lasciava cadere la palla. 

Inoltre, Anna si era premurata di definire in modo più chiaro e formale i ruoli di ciascun membro del team e le sue aspettative nei loro confronti, per ciascuna parte del progetto/attività. 

Precisò infatti a Cristina: «Mi sono assicurata che ci fosse una documentazione che mostrasse le responsabilità di ciascun membro del team, con obiettivi, scadenze e punti di contatto. In questo modo, se mai ci fossero stati dubbi su chi fosse responsabile di una specifica azione o mancata azione, le persone interessate avrebbero potuto semplicemente controllare l’e-mail dell’ultimo aggiornamento». 

Anna concluse il suo racconto affermando: «Una diversa strategia di gestione e comunicazione ha portato a una maggior chiarezza riguardo a ruoli, compiti e responsabilità». Aggiunse anche: « Ha inoltre aumentato la pressione sociale (**) sui membri del team (specialmente su Roberto), incentivando tutti i soggetti coinvolti ad esercitare la propria influenza all’interno della squadra, dando luogo a cambiamenti positivi di atteggiamento mentale e di comportamento da parte di coloro che ne erano oggetto». 

A seguito di questi provvedimenti organizzativi l’avanzamento del progetto di ricerca registrò dei graduali e costanti miglioramenti, anche per un maggior contributo del collaboratore che inizialmente non giocava propriamente in squadra. 

 

La ricetta per stimolare collaboratori svogliati 

Mentre Anna le raccontava la sua esperienza, Cristina annotava su un foglietto le cose salienti che stava ricavando dall’ascolto e i pensieri costruttivi che le venivano sollecitati. 

Una volta chiusa la telefonata con Anna, Cristina riprese in mano il foglietto, lesse ciò che aveva scritto e ne sintetizzò il contenuto nei seguenti punti: 

Fare 

  • Riflettere sul comportamento tenuto fino ad ora con il collaboratore deficitario. 
  • Organizzare un colloquio personale per individuare cause e offrire aiuto (temporaneo) per una evoluzione positiva della problematica. 
  • Valutare l’idea di cambiare la dinamica del rapporto di lavoro con il collega, magari interponendo una terza persona (con la quale egli/ella potesse avere una relazione più facile/aperta).

Se i colloqui personali non producono cambiamenti, agire sul piano organizzativo per cambiare la situazione. Ad esempio:

  • Definire/ribadire chiaramente i ruoli di ciascun membro del team e le aspettative nei loro confronti: obiettivi individuali (il quanto ), livelli qualitativi della prestazione (il come ), tempi di esecuzione, risorse da utilizzare, per ciascuna parte del progetto/attività. 
  • Istituire una relazione scritta (bisettimanale o mensile) sull’andamento del progetto/attività da parte del collaboratore/della collaboratrice sotto osservazione, con evidenza del PERCHE’ di eventuali scostamenti rispetto quanto stabilito in tema di obiettivi/ qualità/ tempi /risorse utilizzate e RIMEDI da lui/lei previsti (chi fa, che cosa, entro quando) per ritornare in carreggiata.
  • Lasciare una  sostanziale traccia cartacea  in tutte le comunicazioni con il collaboratore/la collaboratrice indolente (comunicare per iscritto, con copia al resto del team e agli altri stakeholder pertinenti).
  • Elogiare/incoraggiare il collaboratore/la collaboratrice anche per piccoli miglioramenti della sua performance. 

 

Non fare 

  • Trascurare di considerare il proprio ruolo nella situazione problematica (chiedesi: che impatto ha il mio comportamento sul/sulla collega indolente? Come mi percepisce questo/questa collega?). 
  • Coprire  costantemente il/la collega con prestazioni inferiori alle attese, facendo il lavoro al posto suo: alla lunga può risultare dannoso alla reputazione professionale di chi lo fa. 

Cristina aveva ora una traccia da seguire per smuovere Roberto dalla sua indolenza. 

Ascoltare l’esperienza di Anna e riceverne i preziosi consigli aveva contribuito a liberarla dai “fumi d’ansia negativi” che stavano montando nella sua mente. 

Era il momento giusto per assaporare finalmente il bicchierino di Zibibbo e dare corso a una piacevole e rilassante serata! 

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(*) Daniel Wegner (1948-2013), psicologo e ricercatore all’università di Harvard, ha più volte dimostrato sperimentalmente come i tentativi di non pensare a qualcosa creano l’effetto paradossale di intensificare i pensieri stessi che si cerca di dissipare. Celebre è la sua ricerca, pubblicata sul Journal of Personality and Social Psychology, in cui viene studiato l’effetto orso bianco: se si chiede a qualcuno di monitorare nel tempo i propri pensieri cercando di non pensare all’orso bianco, è dimostrato che la persona è portata a pensare all’orso bianco anche più di una volta al minuto. 

(**) Pressione sociale. Essa si fonda sul desiderio di evitare l’esclusione sociale e ottenere il massimo vantaggio con gli altri. 

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photo by  Robert V. Ruggiero

Di Vessillo Gianni Valentinis

Laureato in Ingegneria al Politecnico di Milano, ha percorso la sua carriera nell’ambito di società multinazionali, ricoprendo vari ruoli dirigenziali e acquisendo una profonda conoscenza delle necessità del business, del suo sviluppo e della gestione d'impresa. I suoi attuali interessi sono rivolti allo sviluppo individuale e organizzativo e alle dinamiche di innovazione nelle organizzazioni, temi su cui ha svolto attività di consulenza e docenza. Ha pubblicato “Alla ricerca dell’eccellenza comportamentale” con A. Mandruzzato, Ed. Franco Angeli, 2014; “La strada per l’eccellenza” con A. Mandruzzato, Ed. Etabeta, 2022.