Culture tight vs loose, ovvero rigide vs lasche. Spiegano differenze che paiono incomprensibili

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Il caso della cestista statunitense Brittney Griner condannata in Russia a nove anni di carcere per possesso e (presunto) traffico di stupefacenti sta tenendo banco in questi giorni, complice il conflitto con l’Ucraina e la crisi nei rapporti con gli Stati Uniti. Naturalmente, il sospetto che la gravità della pena sia esacerbata -o espressamente manipolata- da questioni politiche appare tutt’altro che infondato. Eppure le differenze nei modi in cui le società si tengono unite sviluppando regole sociali più o meno strette, e nella misura in cui le fanno osservare, non sono certo trascurabili nel mondo contemporaneo.

Basti ricordare che a Singapore -ormai tristemente nota come la città delle multe- chiunque venga sorpreso a contrabbandare droghe illecite rischia sanzioni assai più gravi -inclusa la pena di morte. Se pensate che una simile severità riguardi solo temi moralmente e socialmente cruciali come la diffusione degli stupefacenti, vi sbagliate di grosso. Se dimenticate di tirare lo sciacquone in un bagno pubblico di Singapore, rischiate una multa fino a mille dollari. E nel caso in cui, dopo una serata in cui avete bevuto troppa birra (anche essa oggetto di variegati divieti) foste tentati di liberarvi in un ascensore, sappiate che molti di essi sono dotati di un rivelatore di urine che blocca inesorabilmente le porte fino all’arrivo della polizia. Senza contare che molte delle pene prevedono, accanto a multe e carcere, anche punizioni corporali che lasciano il segno.

Al contrario, in molti paesi come il nostro -ma anche Stati Uniti, la Nuova Zelanda, il Venezuela- le regole sociali, pur essendo ovviamente presenti, sono assai più lasche, e sul sanzionamento delle loro infrazioni faremmo meglio a stendere un velo pietoso.

L’interesse per le differenze culturali e le loro origini affonda le sue radici nell’antichità, ed è correntemente affrontato da una manciata di discipline sociali, ciascuna con la propria peculiare prospettiva, e una miriade di punti di vista differenti. Il tema è troppo ampio per le mie competenze, ma ogni tanto spulciando nella letteratura di questi anni si scoprono prospettive curiose, e a volte illuminanti. Nel 2018 è uscito un libro della psicologa culturale Michele Gelfand, “Rule makers, rule breakers”, che offre una sorprendente lettura delle variazioni sul tema secondo un asse a quanto ne so inedito: la dicotomia tra tight cultures e loose cultures (grosso modo rigide e lasche). Il volume fa riferimento a uno studio internazionale del 2011, settemila intervistati da una trentina di paesi in cinque continenti, pubblicato su Science.

 

La dicotomia tight/loose cultures che emerge dalla ricerca è più o meno questa.

  • In alcuni Paesi (Pakistan, Singapore, India, Norvegia, Giappone, Cina, ma anche Germania – specialmente ex-DDR) gli intervistati ritengono che le loro norme sociali siano chiare e pervasive, e, più spesso che non, siano rafforzate da severe punizioni per tutti coloro che non vi si adeguino. Possiamo definire i loro Paesi tight.
  • Altri, al contrario (Spagna, USA, Nuova Zelanda, Grecia, Brasile, Olanda, ecc. (l’Italia non è citata solo perché non ha partecipato all’indagine) riconoscono che le loro norme sono in numero minore, e piuttosto nebulose nella formulazione; le persone si sentono meno vincolate a seguirle, e in caso di infrazione vengono punite in misura più limitata. Sono Paesi loose.

Tra i due estremi, gli altri popoli si distribuiscono lungo un continuum con caratteristiche intermedie.

A prima vista, appare una qualche correlazione geografica nella distribuzione, con un po’ di buchi. I Paesi più tight sono collocati nelle aree del Sud-Est asiatico, seguite dal Medio Oriente e dal Nord Europa. Viceversa, Europa mediterranea, America Latina e Paesi anglosassoni inclinano invece verso culture decisamente più loose. Con punte nelle nazioni dell’ex blocco sovietico (il che alimenta i dubbi sopra espressi circa la particolarità del caso Griner).

Fortunatamente, lo studio raccoglie anche dati più disaggregati. Ad esempio, si focalizza su una decina di ambienti-tipo (parchi pubblici, biblioteche, ristoranti, classi scolastiche ecc.) che restituiscono una fotografia più dettagliata. Così scopriamo che alcune situazioni sono più normate delle altre in tutte le culture (la biblioteca), ma anche in questo caso le culture loose tollerano un range più ampio di comportamenti.

Nonostante le radici profonde delle norme, le culture possono spostarsi nel tempo lungo l’asse tightness/looseness. A volte in modo improvviso. Quasi tutte peraltro tendono a conservare delle bolle temporali o spaziali, in cui i comportamenti di segno opposto possono essere praticati in modo sicuro, ma strettamente confinato. Pensate alla cultura giapponese così tight, che tuttavia consente comportamenti veramente loose in alcune singole strade di Tokyo, o alle subculture underground che trovano una loro strada persino nelle società più rigide (alle nostre latitudini, avevamo nei secoli più tight i carnevali). O, viceversa, considerate le ossessioni per la privacy, oasi di tighness in società altrimenti decisamente loose.

Non possiamo parlare di superiorità di un tipo di cultura rispetto all’altra.

Piuttosto, riconosciamo l’esistenza di un tight/loose trade-off. Le società tight presentano maggiore ordine sociale e minori tassi di criminalità rispetto alle altre (per effetto di punizioni più severe, ma anche di un più ossessivo controllo); va da sé che alla fine risultano anche più pulite, e meno chiassose. In generale, le persone mostrano un maggiore self-control, cosa che si ripercuote in termini macro sul risparmio e l’indebitamento. Il lato che ci incuriosisce di più è però la loro capacità di consentire un maggior grado di sincronizzazione (la capacità di operare in stretto coordinamento) rispetto alle società loose, più caotiche e meno performanti quando si tratti di agire come un unico meccanismo. Cosa che ha la sua incidenza, ad esempio, nei trasporti -lo Shinkansen giapponese vs. i bus sudamericani- o più in generale nelle situazioni di difficoltà, come vedremo tra breve.

Le società più loose compensano il maggiore disordine e lassismo con un’apertura al cambiamento, alle nuove idee, e alle persone diverse che consente loro di surclassare quelle tight in termini di dinamiche competitive evolutive e, più in generale, di creatività (che si avvantaggia sia della maggiore esposizione alle idee differenti, sia di una maggiore de-sincronizzazione). Insomma, riassumendo, ordine, sincronizzazione e auto-controllo vs. apertura al cambiamento, creatività e tolleranza. Di contro, chiusura, limitazione di libertà e inerzia culturale vs. disordine sociale, mancanza di coordinamento e impulsività.

Fin qui, i dati. Forse c’eravamo arrivati anche noi, magari non in modo così chiaro. Ma la parte interessante viene dalla domanda: perché?

 

Che cosa hanno in comune le società di ciascuna categoria?

Risposta (secondo Gelfand): le minacce che le società hanno subito nel corso della loro storia.

  • Creare ordine sociale, coordinamento, sospettosità verso il diverso, compattezza, sincronicità è il modo delle società di rispondere a continue catastrofi naturali, invasioni nemiche, penurie di cibo e acqua: tutte situazioni a cui una società tight, più compatta e sincronizzata, ha più probabilità di rispondere efficacemente.
  • Le culture loose sono dunque quelle che si sono potute permettere nei secoli il lusso di dover affrontare poche (o molto discontinue) minacce, e si sono potute sentire abbastanza sicure da accogliere nuove idee, accettare persone straniere, e tollerare comportamenti più variegati.

Qualche esempio? Le società a maggior densità umana (Singapore, India, ecc.) hanno dovuto creare norme sociali forti per minimizzare i conflitti e organizzare il disordine naturale che il sovraffollamento produce. Popoli oggetto di costanti minacce di invasione da parte di eserciti nemici (Germania, Corea del Sud, Cina) necessitano di un rapido coordinamento e un rigido ordine, oltre che una sana diffidenza per lo straniero, per creare un fronte di resistenza persistente verso i nemici. Paesi esposti a frequenti e intense calamità naturali (Cina, Giappone) sono avvantaggiati da queste stesse caratteristiche nel far fronte all’evento e alla successiva ricostruzione. Carestie, difficoltà strutturali a procurarsi acqua e sostentamento, malattie (pensate, al di là dei risultati, al modo in cui Cina e Corea del Sud hanno affrontato il Covid), idem.

Anche se questi pattern sono spesso profondamente radicati nella storia, basta –relativamente– poco per indurre ondate di contro-atteggiamenti che tendono a riportare, magari solo per periodi limitati, a volte qualche anno, e immediatamente cavalcati dai relativi schieramenti politici, la società verso la direzione opposta. Abbiamo visto questi fenomeni dopo l’11 settembre: riduzione delle libertà, compattamento sul fronte terroristico. In Italia, come in altri Paesi, il Covid ha prodotto una stretta nell’autocontrollo rispetto a determinati comportamenti (vedremo quanto permanente), unitamente a una minore tolleranza verso posizioni difformi, e una fiammata improvvisa di patriottismo l’Italia ce la farà! Al contrario, la caduta del muro di Berlino ha portato i tedeschi federali a sostenere, e realizzare, un progetto monstre di riunificazione sorprendente per una società tight come la loro.

Applichiamo la teoria tight vs loose culture ad aggregati specifici?

Come tutte le idee che coraggiosamente vengono sempre più spesso proposte volando ad alta quota, in un contesto scientifico da decenni sempre più particolare e specialistico, anche questa presta probabilmente il fianco a critiche feroci. Trovo tuttavia interessante, senza sposarne per questo del tutto la teoria, l’idea di applicare questa prospettiva anche a livelli di aggregazione più specifici. Penso, ad esempio, alla questione meridionale in Italia, o ai rapporti tra e con le varie subculture, o ancora alle modalità di integrazione delle diverse culture che gli immigrati portano con sé nel mondo occidentale.

Non so se esitano già studi in giro per il mondo, ma, in qualità di professionista che opera nelle aziende e per le aziende, sarei molto curioso di capire se questa prospettiva possa essere feconda anche quando andiamo ad analizzare il mondo delle organizzazioni di business. In fondo, tutti abbiamo in mente culture aziendali storicamente tight, e ne abbiamo osservato la solidità e l’efficienza, ma anche la rigidità, l’immobilismo e la difficoltà di cambiare, a volte fino all’estinzione. Quando organizzazioni dalla cultura più loose hanno concretizzato i vantaggi competitivi che le loro strutture più aperte alle nuove idee, alle ibridazioni, alla diversità hanno facilitato (un elemento già presente nelle teorie dell’edge of chaos).

Forse, guardando alle loro storie, troveremmo che le loro culture possono essere state segnate da minacce analoghe a quelle che hanno agito sui Paesi di cui abbiamo parlato: scarsità (crisi e difficoltà economiche di mercati specifici), minacce di aggressione (pressione competitiva), sovraffollamento (cambiamento di scala dimensionale?), persino malattie (sfiducia o demotivazione che si diffondono esponenzialmente nell’organizzazione?).

E che dire delle relazioni tra famiglie professionali tight (ingegneria, accounting) e loose (marketing, HR)? O dell’inserimento di personale proveniente da culture tight (indiani, turchi, ecc.) in aziende loose (o invece tight)? O ancora delle collaborazioni multinazionali (spagnoli loose con cinesi tight)?

Amici coach, forse c’è una chiave di lettura anche per voi.

Non è mai troppo tardi per aggiungere una nuova metafora alla propria faretra.

 

Photo by Markus Spiske

Di Augusto Carena

Augusto Carena, ingegnere nucleare, si occupa di Simulazioni di Business, Systems Thinking, Decision Making complesso, e bias cognitivi nelle organizzazioni. Su questi temi svolge da trent’anni attività di formazione manageriale in Italia e all’estero. Con Giulio Sapelli lavora sulle culture d’impresa in progetti di etnografia organizzativa. Ha pubblicato con Antonio Mastrogiorgio La trappola del comandante (2012), sui bias nelle organizzazioni, e Dialoghi Inattuali. Sull’Etica