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Queste riflessioni sono di Letizia Navarino, psicoterapeuta, psicomotricista e psicologa dello sport. Trainer e responsabile del settore di Gestalt Sport Coaching nella nostra scuola.

Tempo fa ero un’allenatrice e una psicologa dello sport. Allenavo il nuoto di una squadra di triathlon e svolgevo il mio lavoro in studio. Per molto tempo, durante la mia formazione, mi sono chiesta se e come portare sul piano vasca ciò che imparavo a essere nella stanza di terapia e come poteva essere efficace con i miei pazienti sportivi il mio essere un tecnico.

All’inizio ero poco consapevole della rigidità con cui separavo i due ruoli e di quando invece li mischiavo. Piano piano mi sono resa conto che era importante per me lavorare sulla consapevolezza di quando ciò avveniva e che non sempre sarebbe stato possibile dividere le mie conoscenze e le  mie competenze. La sfida dunque era trovare il modo di farle dialogare per integrarle e per continuare ad alimentare la curiosità nella relazione con gli atleti e con i tecnici, sia da psicoterapeuta che da allenatrice.

Questa storia mi aiuta a rievocare il metodo e l’approccio che ho seguito, e quanto come coach abbiamo il compito di accompagnare i nostri clienti/atleti in momenti della loro vita. Quello che facciamo non si conclude con il percorso ma continua a lavorare sotto pelle dei nostri coachee sostenendoli nelle sfide della vita. E rendendo affascinante il lavoro di coach.

Aprile 2021

Esco dalla mia stanza per accompagnare un mio paziente alla porta alla fine della seduta e mi ritrovo Thom in sala d’aspetto. Non lo vedo da maggio 2020, quando per caso ci siamo incontrati in un sentiero di montagna, entrambi liberi dopo il duro lockdown che aveva colpito tutti noi. Da quando nel 2018 lasciò l’Italia per studiare in Inghilterra ci siamo visti in rare occasioni e spesso sentiti tramite messaggi. La sorpresa di incontrarlo in montagna l’anno scorso fu comunque molto forte. Lo trovai più grande fisicamente, con i capelli lunghi e la barba, e  mi diede la sensazione più di un surfista americano che di un ingegnere in formazione. Fui però contenta di vederlo esattamente così com’era, aveva trovato la sua personalità e non aveva timore di esprimerla.

Quando me lo trovo in studio adesso, gioia e sorpresa mi invadono. Faccio uscire il mio paziente e accolgo Thom in un caldo abbraccio, con mascherina! Mi dice che era li per farmi un sorpresa essendo di passaggio in Italia per i 18 anni del fratello. Chiacchieriamo un po’  e mi racconta che  continua a studiare e che lavora per brand importanti. Mentre parla è soddisfatto ed entusiasta. Ha deciso che alla fine del suo percorso di studi vorrà trasferirsi in una zona più calda, è un po’ stufo del clima inglese.

Mentre lo ascolto penso a quanta strada ha fatto e del pezzo in cui l’ho accompagnato. Ora corre solo più per piacere, ma è riuscito a superare molti ostacoli dovuti allo studio e al lavoro con semplicità avendo rispetto di chi è e di che cosa sente e vuole momento per momento, senza lasciarsi troppo condizionare da “come devono essere fatte le cose”. È riuscito ad appoggiarsi alla sua parte surfista australiano, morbido e flessibile, tenendo lo stesso ben in vista quelli che sono i suoi obiettivi, senza però irrigidirsi troppo.

Settembre 2014

Conosco Thom da quando ho iniziato la mia avventura nel triathlon, e la cosa che mi colpì subito fu la rigidità del suo corpo. Bacino bloccato e spalle curve in avanti, testa rivolta spesso verso il basso. La sua nuotata esprimeva una grande potenza, ma risultava poco efficace. Più che usare l’acqua per avanzare, Thom lottava con essa per rimanere a galla. Nel relazionarsi con me, come sua allenatrice, Thom utilizzava introietti forti e continui su come doveva nuotare e cosa doveva ottenere nelle gare. La sua voce in allenamento non la sentivo mai, eseguiva automaticamente le cose che proponevo alla squadra, probabilmente il sogno di tutti i tecnici, ma non il mio.

Il primo anno avevo quasi 25 ragazzi da conoscere, non solo tecnicamente, anche personalmente, e così decisi di passare la stagione a osservare la squadra per imparare da loro quel mondo così diverso dal nuoto puro. In quell’anno di osservazione, nello specifico, notai che la bracciata di Thom era meccanica e frammentata e che poteva essere importante fargli sperimentare un modo di nuotare più morbido, fluido e integrato. Avevo la consapevolezza, grazie alla mia esperienza come terapeuta,  che questo tipo di lavoro avrebbe richiesto del tempo perchè modificando un gesto, che sia tecnico o meno, si verificano degli effetti importanti nel corpo, nel modo di sentire e di essere di una persona. 

La strada sembrò giusta, il cronomentro diceva che Thom stava andando più veloce, ma sentivo  una sensazione di cautela nel guardarlo, sia in acqua che fuori, come se tutto fosse appeso a un filo, sia tecnicamente che metodologicamente. La relazione che stavamo costruendo mi sembrava buona, ma era chiaro che mi mancava la voce di Thom durante gli allenamenti. Non sapevo, quando, come e cosa gli succedesse qualcosa, così iniziai a fargli domande continue: “come stai?“, come ti senti?, cosa vuol dire che stai male? in questo modo va meglio o peggio?”

Ecc… insomma diventai curiosa di quello che provava quando io gli offrivo uno stimolo. Per lui all’inizio fu difficile trovare le parole per descrivermi cosa succedeva in allenamento, ma insieme iniziammo a costruire un alfabeto  che gli permettesse di comunicare con me e che mi aiutasse a capire a che punto lui si trovasse. Purtroppo quel senso di precarietà diventò concreto, e Thom ai nazionali si ammalò. Con il passare del tempo scoprimmo che aveva il fuoco di Sant’Antonio, che lo destabilizzò fino a settembre. Decidemmo di ripartire, ma questa volta fu la schiena a farsi sentire, poi le adenoidi, la gola ecc… Thom in quella stagione affrontò anche la maturità, fondamentale per avere la possibilità di giocarsi l’ammissione all’università inglese che lui tanto desiderava. Quello che per me fu chiaro è che cercammo per tutta la stagione di limitare i danni. Thom rifiutava di entrare in contatto con il proprio corpo, che lo stava mettendo di fronte a un limite, non concedendosi il tempo per recuperare pienamente dai diversi stop. Per me diventò importante sostenerlo nell’acquisizione  della consapevolezza di quello che stava succedendo, dei limiti e della frustrazione che da essi ne derivava. Cercai di tradurre a Thom ciò che stava succedendo e di sostenere il dialogo con le sue sensazioni anche se frammentate, come le sue relazioni, caratterizzate da molte figure di riferimento che a volte erano più impegnate a trovare una soluzione in poco tempo piuttosto che stare con lui nella delusione. Credo che tutti ci sentivamo confusi, frustrati e instabili, alla ricerca di un appiglio per sostenere Thom e tutta la squadra.

Settembre 2016

E così veniamo alla stagione agonistica 2016/17. Decidiamo di modificare alcune cose, nuotare di più e in modo diverso. Due mattine a settimana ci vediamo solo io e Thom e facciamo esperienze in acqua. Nulla a che fare con metodologie di allenamento innovative per farlo nuotare forte, solo esperienze. Mi viene naturale essere come sono quando lavoro in studio: curiosa e creativa. Inizio a proporgli galleggiamenti, scivolate, bolle, remate, senza programmare nulla, solo facendomi guidare dalla mia esperienza e da cosa vedo in acqua di Thom, dell’effetto che mi fa e verificando continuamente l’impatto che hanno su di lui gli stimoli che gli propongo. È difficile all’inizio sintonizzarci uno con l’altro. Thom utilizza principalmente il pensiero per nuotare e meno la sua capacità propriocettiva, non sente che cosa fa il corpo  in acqua, pensa molto a ciò che ha fatto e a ciò che farà, risultandogli difficile stare nel qui e ora, rendendo meccanico e frammentato il gesto. Lavoriamo insieme sul rendersi conto di quando è più in contatto con i suoi pensieri e meno con il corpo e sulla riappropriazione della responsabilità delle sue azioni in acqua.

Le nostre mattine così sono caratterizzate da divertimento, leggerezza e dialogo fenomenologico continuo. Thom inizia a lottare meno con l’acqua e ad affidarsi di più a lei e alla sua corporeità, trova il suo ground nel galleggiamento e lo utilizza per costruire bracciate più efficaci. Continuamente ci confrontiamo su che cosa vedo io e che cosa sente lui,  aperti uno all’altra a essere modificati dal feedback ricevuto. Con il tempo Thom impara a portare ciò che apprende con me  negli allenamenti che facciamo al pomeriggio con la squadra. Da febbraio a marzo iniziamo a lavorare in maniera più intensa anche al mattino, sempre affidandomi a ciò che vedo di Thom e restando pronta a modificare qualsiasi cosa io abbia programmato in precedenza, lascio che lui mi influenzi. A volte la sensazione di camminare sulle uova continua a essere presente, ma sono più le volte in cui la fiducia, non saprei se nelle mie scelte, in Thomas o in entrambi, è solida.

Ci sono momenti in cui i suoi “devo” e “dovrei” sono ancora forti, mi irritano e destabilizzano, altre volte in cui il suo unico specchio diventa il tempo o la posizione, smettendo di affidarsi alle proprie sensazioni e ai propri strumenti. Si verificano ancora momenti in cui ha bisogno di trovare insieme un senso a un allenamento andato storto o a sensazioni sgradevoli. Quello che  per me è chiaro e importante è che comunque Thomas sente  e si sente  con più fluidità, riuscendo a comunicare cosa gli succede, a volte più facilmente altre volte più duramente e quando questo succede è  difficile rispettare i suoi tempi, fatti di silenzi e di rabbia, a volte arriviamo allo scontro e altre volte al conforto.

Il suo corpo è cambiato, le spalle sono diventate più ampie, lo sguardo è rivolto in avanti, la nuotata ora è sostenuta dall’acqua e tende ad avanzare, la respirazione è più fluida. Il suo modo di relazionarsi agli allenamenti è cambiato, sa usare l’ironia, l’umorismo e la gentilezza verso se stesso.

A inizio giugno Thom ha tagliato la linea del traguardo diventando campione italiano di Acquathlon e il giorno successivo terzo classificato nel triathlon, posizioni che gli sono valse la convocazione agli europei. Accanto alla commozione per il risultato è presente la soddisfazione di averlo visto nei momenti prima della gara presente a se stesso, consapevole che c’erano dei pensieri, ma anche un corpo, il suo, su cui fare affidamento. Per me è stato chiaro che Thom ha acquisito maturità e lucidità vedendolo concludere la gara del triathlon al meglio pur sapendo della possibilità di essere squalificato e nel mantere il valore della sua prestazione e di se stesso nonostante la successiva conferma della squalifica.

Raccontando l’emozione provata in questa occasione, all’interno del gruppo di lavoro di gestalt coaching,  mi è stato chiesto che cosa riconosco a Thom e che cosa a me stessa:

  • a Thom il talento di saper lavorare sodo, di aver imparato a sentire il piacere in quello che fa, non solo il dovere, e di aver imparato a dare fiducia alle sue sensazioni.
  • a me stessa l’aver saputo fare cose semplici
  • a entrambi il piacere di avere lavorato insieme fino a quel momento, insieme alla gratitudine di aver costruito esperienze per imparare a proporre e sostenere la semplicità.

Credo che sia questo il nocciolo del lavoro come tecnico, coach, psicologo dello sport e terapeuta: il saper stare nella semplicità e nel saperla proporre, dando continuamente energia allo sfondo senza aspettarsi che ne emerga una figura precisa, come la performance. Nutrire lo sfondo significa essere in dialogo continuo con l’altleta, incuriosirsi di ciò che prova, di quello che pensa, considerandolo l’esperto di se stesso. Vuol dire anche essere continuamente in contatto con se stessi, con le proprie sensazioni e intuizioni, riconoscendogli un valore e un utilità, perchè permettono di non dare le cose per scontate e di lasciare da parte -in molte occasioni- tabelle e teorie di allenamento a favore del qui e ora vissuto nella relazione con l’atleta o con la squadra.

Spesso nella relazione con Thom le figure emerse non avevano nulla a che fare con la ricerca della performance o con la metodologia  di allenamento. Abbiamo co-costruito la nostra relazione con le chiacchierate a bordo vasca, mai invasive o fuori luogo, e con il dialogo in acqua durante gli allenamenti e nutrito lo sfondo tecnico-metodologico usando l’abc dell’allenamento, verificando che l’uno potesse sostenere l’altro continuamente.

Photo by Ava Sol

Di Scuola di Gestalt Coaching

SCUOLA GESTALT COACHING SRL: Un team di professionisti che, attraverso un metodo fortemente esperienziale, la formazione in aula, sessioni di personal e team coaching, l’intervento diretto nelle organizzazioni, lavora per sostenere e integrare i processi di crescita personale e professionale, la qualità della vita, il successo del team e dell’organizzazione, il benessere collettivo. Tra i suoi corsi: il Master in Gestalt Life e Business Coaching, il Master in Gestalt Life e Sport Coaching, il Master in Gestalt Corporate Coaching, i Seminari di Formazione Manageriale.