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Avete mai sentito parlare di Big Wombassa? Io no. O meglio, non l’avevo mai sentito nominare fino a quando, mentre scrivevo un libro sulle illusioni cognitive, mi sono trovato a leggere un libro assai originale di Daniel Gilbert dedicato al tema, per me nuovo, dell’affective forecasting: “Stumbling on Happiness. In realtà, di questo strano termine parla non Gilbert, ma il suo editore John Brockman: introducendo il tema del libro, si riferisce al Big Wombassa (una invenzione attribuita a Jack Nicholson, l’attore) come a “ciò che pensi di ottenere, ma non ottieni, quando ottieni ciò che vuoi”.

Oltrepassando lo slang  hollywoodiano, e adottando lo slang  psicologico, siamo nel regno dell’affective forecasting,  che i loro promotori, Daniel Gilbert e il suo collega Timothy Wilson, definiscono come “la capacità di predire le proprie reazioni edoniche agli eventi futuri”. Vediamo di decodificare.

Una proprietà caratteristica della nostra mente (alcuni dicono la nostra modalità fondamentale) è quella di anticipare il futuro, simulando una o più versioni di ciò che può accadere, e scegliendo tra le diverse preview quella che più si accorda con i nostri obiettivi. In questo senso, la simulazione mentale – che avvenga consapevolmente o inconsciamente, è parte importante del nostro decision-making.

Si dà il caso che questo straordinario strumento sia purtroppo soggetto a una serie di errori di progettazione, come testimonia il campo di studi che prende il nome di bias cognitivi.  A questo amaro destino non sfugge, e qui veniamo al punto, la previsione di come reagiremo, dal punto di vista emotivo, a molti eventi, ordinari oltre che straordinari, che scandiscono le nostre vite. In poche parole, raramente siamo felici o infelici come ci aspettiamo di essere.

A parte il risvolto personale – tutt’altro che irrilevante – questo baco nel nostro software mentale dovrebbe preoccupare anche sul fronte professionale. Se, in quanto funzione del Personale, mi preoccupo di costruire un sistema motivazionale per i miei, devo sapere cosa rende davvero contente – al di là del dichiarato – le persone, e se funziona davvero. Per un coach, le implicazioni sono ancora più ampie. Se il mio compito è, per un singolo individuo, andare oltre i valori dell’organizzazione per aiutarlo a mettere in luce i propri veri obiettivi, allora diventa cruciale sapere se perseguirli lo rende davvero più soddisfatto. Una persona si pone obiettivi nella convinzione (o almeno nella speranza) che il loro raggiungimento la renderà, diciamo così, più felice: ma è proprio su quest’ultimo, cruciale punto che Gilbert segnala nubi tempestose.

Ora, se i nostri errori fossero assolutamente casuali, saremmo disarmati. Potremmo solo sparare nel mucchio, sperando di azzeccare ogni tanto le previsioni. Ciò che rende interessante l’affective forecasting  è invece che i nostri errori sono spesso sistematici: vanno cioè sempre nelle stesse direzioni.  Un po’ come nelle illusioni ottiche, in cui vediamo tutti, e sempre, lo stesso effetto di distorsione. In questo caso non siamo poi così inermi: possiamo sempre pensare a un meccanismo di correzione da usare quando siamo in pericolo di errore (una specie di occhiali speciali da indossare solo quando sospettiamo che ci possano servire; anche se, una volta tolti – o se ci dimentichiamo di metterli – vedremo le cose esattamente come prima).

Ma quali sono questi errori?

Il più importante, e più facilmente verificabile, è che tendiamo a sopravvalutare l’impatto degli eventi futuri. Non a sottovalutarlo. Ecco la sistematicità dell’errore. Non che gli eventi non abbiano un impatto, ma per lo più ci aspettiamo che esso sia assai più intenso, e molto più duraturo di quanto si verifichi nella realtà. È quello che viene chiamato impact bias. Come lo misuriamo? Chiediamo alle persone di prevedere come si sentiranno prima di un determinato evento futuro (con minuti, giorni o mesi di anticipo); e torniamo a chiedere loro come si sentano davvero  dopo l’evento stesso. Potremmo farlo anche personalmente con i nostri conoscenti, pur di avere la necessaria pazienza, e di essere disposti ad affrontare la loro imperitura ingratitudine. L’impact bias  è la differenza sistematica  tra le nostre previsioni e le successive constatazioni.

Pensate a eventi più ordinari, che tutti abbiamo incontrato almeno una volta, e sui quali dovremmo dunque essere più esperti: la rottura di una relazione, o, sull’altro versante, una promozione desiderata o un acquisto cui tenevamo molto. Quanto a lungo siamo stati rispettivamente infelici o felici? Magari non poco; ma, in genere, molto di meno di quanto avremmo immaginato prima.

Perché? La verità è che siamo dotati per natura di un sistema di difesa poderoso, che Wilson chiama sistema immunitario psicologico.  Come il sistema immunitario tout-court  entra in funzione automaticamente quando il nostro corpo viene minacciato da un agente esterno, così quello psicologico  scatta, senza che ce ne accorgiamo, quando qualcosa mette in pericolo il nostro equilibrio psichico – e anche qualcos’altro, come ad esempio l’immagine che di noi hanno gli altri, e, più importante ancora, noi stessi.

Questo sistema dispone di un vasto armamentario (non vi aspettavate che fosse tutto semplice, vero?). Ma uno dei mezzi più potenti è la capacità di razionalizzazione ex-post (del tipo “quello/a? Meglio perderlo/a che trovarlo/a”  dopo una rottura o un due di picche). Diventiamo abilissimi nel trovare ottime ragioni (magari anche vere) per cui l’evento, a pensarci bene non è una tragedia, anzi. E il suo impatto, più o meno velocemente, svanisce.

Ma se abbiamo un’arma così potente, perché non ce ne ricordiamo la prossima volta che immaginiamo l’effetto edonico  di eventi futuri, evitando almeno un’infelicità anticipata? Perché la razionalizzazione è un processo automatico, e per lo più inconscio. Passando sotto al livello della coscienza, non abbiamo consapevolezza della sua azione.

Una seconda causa di errore è legata ai meccanismi dell’attenzione.  Quando immaginiamo il dolore di una perdita, o la felicità di una promozione, mettiamo sotto un riflettore l’evento in primo piano ben illuminato. L’attenzione funziona così. Ma l’ampia zona buia intorno allo spotlight  non è vuota: contiene innumerevoli altri eventi, quotidiani e non, che magari non hanno la stessa intensità, ma nei giorni e mesi successivi contribuiscono eccome al nostro bilancio edonico, diluendo l’impatto di quello sotto osservazione in misura spesso decisiva. Anche questo fenomeno è catturato da un modo di dire diffuso: “la vita va avanti”.

Il fatto che abbiamo chiamato in causa locuzioni popolari testimonia che abbiamo una vaga idea di come reagiamo (soprattutto di come lo fanno gli altri) in queste circostanze; e che si tratta di un’attitudine molto umana. Di quelle che gli economisti classici, già non proprio a loro agio con la psicologia, considerano un ostacolo al buon decision-making: se non so quanto mi farà felice (e per quanto tempo) un acquisto, come posso massimizzare la mia funzione di utilità? Di qui, una certa pressione a ricercare quei famosi occhiali correttivi cui abbiamo accennato sopra. D’altra parte, anche Direttori del Personale e coach, per le ragioni esposte, potrebbero trarre giovamento – con più nobili fini – dai suggerimenti che alla fine Gilbert, nel libro citato, propone per superare il problema.

Cautela, però. In una prospettiva evoluzionistica, anche questi errori hanno una ragion d’essere. Ad esempio, pensare (pensare è la parola chiave) che la perdita di un figlio sarà vissuta come una tragedia immane e inconsolabile, può aver aiutato i nostri progenitori a dirottare risorse verso un controllo rigoroso del rischio, con prevedibile aumento della fitness darwiniana. Così come il fatto di aspettarsi felicità ben superiore a quella che si proverà realmente da un’intrapresa di successo ha probabilmente stimolato la sperimentazione e il perseguimento degli obiettivi.

Con questi caveat,  ecco cosa la ricerca nel campo dell’affective forecasting suggerisce per attenuare l’impact bias.

Il nostro modo di immaginare il nostro stato d’animo futuro, come abbiamo detto, è semplice: chiudiamo gli occhi (a volte non abbiamo bisogno neanche di quello) e ci proiettiamo avanti nel tempo. Una macchina del futuro che, come abbiamo visto, ha più di qualche pecca. Ma abbiamo qualche alternativa? Sì:

Chiedete. Chiedete e osservate. Chiedete a qualcuno che ha già sperimentato quel futuro. E annotate come si sono sentiti in quella occasione. Tanto più l’interrogato sarà simile a voi, tanto maggiore sarà l’accuratezza della vostra previsione. Comunque sia, meglio che affidarvi all’immaginazione.

Forse non vi piacerà. Probabilmente avrete un mucchio di obiezioni da porre, tutte molto sensate. Eppure, studi di laboratorio e non dicono che funziona molto meglio della nostra immaginazione lasciata a sé stessa.

Si, lo so, anche a me fa lo stesso effetto. Quasi un’offesa alla nostra individualità. Siamo diversi, perbacco! E fieri della nostra unicità, come ci ripetono in tutte le salse nella nostra civiltà dell’individuo (non oso immaginare come debba sentirsi non un ingegnere come me, ma uno psicologo – d’altra parte, se devo credere a quello che ho scritto, dovrei trovarne uno rapidamente e chiederglielo direttamente).

Persino interrogare una persona a caso funziona meglio che affidarvi alla vostra simulazione mentale.

Eppure.

Molti di noi, in realtà, operano in questo modo quando, prima di un acquisto, importante o meno, consultiamo per ore i nostri amici, o addirittura i commenti di sconosciuti su Amazon, Tripadvisor, Booking. Non cerchiamo solo asettiche indicazioni su punti di forza e di debolezza. Leggiamo con attenzione ogni sfumatura che ci lasci intravedere se quell’acquisto ha reso più o meno felice quella persona. In fondo, cerchiamo di anticipare, attraverso gli occhi di altri, quale sarà l’impatto edonico su noi stessi. Eppure, quando si tratta direttamente dei nostri sentimenti, poniamo innumerevoli obiezioni: ci riteniamo così unici da scartare l’idea. Ma i due meccanismi puntano nella stessa direzione. E la ricerca conferma che, al di là delle nostre differenze, la nostra felicità si fonda su primitive comuni.

Se fossi un coach, ci ragionerei seriamente. Provate a pensarci. Molte persone si rivolgono a voi in cerca di aiuto per sviluppare i propri obiettivi. Con l’implicita aspettativa di ricavarne, in caso di raggiungimento, maggiore felicità – o soddisfazione, o come volete chiamarla. Il fatto stesso di chiedere un aiuto è un passo verso l’attenuazione dell’impact bias, un’indicazione che forse sentono che la loro abilità simulativa non basta. Per inciso, la persona a cui si rivolgono non sempre è la più adatta come testimone dell’impatto edonico degli eventi nelle organizzazioni; spesso viene dalla consulenza, a volte da un percorso destrutturato. Nel mio caso, ad esempio, sono stato osservatore esterno di miriadi di eventi, ma i miei ricordi dell’impatto personale di una promozione o di un mobbing sono troppo lontani del tempo e sbiaditi per offrire un’utile occasione di confronto, nel senso indicato sopra.

Ecco, allora, un’idea che propongo come tema di riflessione. Perché non offrire ai vostri clienti un’opportunità diretta di confronto con chi ha vissuto in prima persona, e magari più di una volta, gli eventi che loro si propongono di perseguire? Perché non metterli in contatto con testimoni preziosi (specialmente se abbiamo la capacità di scegliere i più adatti, per somiglianza e struttura psicologica)? Perché non proporre una verifica in più, oltre all’immaginazione personale (che è fallace) e a un processo che, a volte, può non contenere esperienza se non indiretta, nella valutazione di cosa valga la pena, e cosa meno?

Meditate, coach, meditate.

Di Augusto Carena

Augusto Carena, ingegnere nucleare, si occupa di Simulazioni di Business, Systems Thinking, Decision Making complesso, e bias cognitivi nelle organizzazioni. Su questi temi svolge da trent’anni attività di formazione manageriale in Italia e all’estero. Con Giulio Sapelli lavora sulle culture d’impresa in progetti di etnografia organizzativa. Ha pubblicato con Antonio Mastrogiorgio La trappola del comandante (2012), sui bias nelle organizzazioni, e Dialoghi Inattuali. Sull’Etica