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Ripropongo qui un’intervista che mi ha fatto recentemente Gianni Passavini,  pubblicata su Protagonisti

L’etica è considerata da molti un argomento buono solo per filosofi o per “buonisti”: come risponde a questa vulgata un divulgatore dell’etica come lei?

L’Etica ha un proposito molto pratico: orientare i comportamenti umani al bene comune e alla sostenibilità. Qualcuno vuole rimuovere l’impegno necessario e la fa apparire come una teoria astratta e utopistica. In verità è una filosofia molto concreta che tratta di comportamenti quotidiani e cerca di discriminare tra quelli che creano valore e quelli dannosi per la società e per il mondo intero. Che lo vogliamo o no, ogni nostra azione ha una valenza etica: quando parcheggiamo in seconda fila, quando aiutiamo una mamma a scendere dal tram con il passeggino, quando saltiamo la fila grazie a un “favore” di amicizia, quando sprechiamo l’acqua e il cibo, quando lasciamo la plastica abbandonata, quando paghiamo o incassiamo “in nero” e così via.  La scelta e la responsabilità etica ci accompagna in ogni gesto della giornata.

 

Cominciamo dalla teoria: c’è una differenza tra il concetto di etica professionale e quello di deontologia professionale?

Etica e Deontologia professionale vengono spesso citate in modo indifferenziato. Esistono, però, delle differenze che le portano ad essere complementari, due prospettive distinte e alleate. Mentre l’etica mira ai criteri guida e alla responsabilità, la deontologia riguarda più precisamente il rispetto delle norme prescritte. Entrambe contribuiscono a incanalare ii comportamenti verso una situazione equa e sostenibile. L’etica applicata alla professione indica ai professionisti che devono essere competenti, responsabili, onesti nell’esercizio delle loro professioni, rispettosi dei diritti e della dignità degli utenti/clienti. La deontologia prescrive in dettaglio i doveri e gli obblighi nello svolgimento delle specifiche attività professionali e stabilisce sanzioni nei casi di trasgressione. Queste norme vengono raccolte in un codice deontologico, che è differente per un avvocato, un medico, un giornalista o un consulente del lavoro.

 

Profitto ed etica, a prima vista, sembrano due mondi separati e opposti, che vanno in direzioni diverse: è proprio così?

Se inteso come pura espressione numerica del valore aggiunto creato in un processo lavorativo, il profitto è un normale prodotto dell’attività professionale. Il giudizio etico entra in gioco quando analizziamo come è stato prodotto il valore aggiunto e poi come è stato investito o ripartito. Se il profitto nasce da uno sfruttamento del lavoro nella catena produttiva (tipo lavoro minorile o in condizioni di ricatto), allora l’etica lo giudica un indebito appropriamento di plusvalore, in quanto un bene comune diventa un patrimonio privato. Se invece viene equamente distribuito tra le risorse che contribuiscono alla creazione del valore (stakeholder, inclusi l’ambiente e le future generazioni), allora il giudizio etico è ben diverso.

 

Qual è il valore aggiunto di un comportamento professionalmente corretto?

Nel lavoro professionale l’etica è indispensabile, non è un optional o un fiore all’occhiello. Il professionista possiede delle conoscenze distintive rispetto all’utente ed esercita un’autonomia di giudizio nella loro applicazione. C’è una naturale asimmetria di conoscenze che diventa una fisiologica asimmetria di potere. E’ necessario mantenere un equilibrio organico. L’uso responsabile della discrezionalità nell’impiego delle competenze è fondamentale. L’etica è un regolatore indispensabile del lavoro professionale. L’eticità del comportamento nella professione è necessario e conveniente per tutti. È indispensabile per assicurare equità nei rapporti tra utente e professionista. È opportuno per garantire equilibrio nella concorrenza tra professionisti e dare il giusto premio al merito. È utile per assicurare che il contributo professionale sia sostenibile nel lungo periodo.

Il pregio ulteriore è che può generare una spirale virtuosa. Infatti, il comportamento etico ripetuto nella attività professionale crea una reputazione, che può diventare fattore competitivo e contribuire a creare un “sistema” etico. Quando una comunità professionale (o una catena di relazioni o una rete di business) applica in modo sistematico il comportamento etico, si instaura un funzionamento che non ha sprechi di competizione conflittuale, e quindi è conveniente. Mentre un sistema senza regole tende all’inefficienza, perché le forze contrapposte perdono energie nelle tattiche di conflitto e i loro contributi in parte si neutralizzano.

 

Vi sono situazioni nelle quali è difficile agire all’insegna della “terzietà”, situazioni che mettono a dura prova chi deve prendere una decisione…

Il dilemma etico è fisiologico nella professione, non è un incidente di percorso

Nell’intento di rispettare i diversi interessi, che a volte risultano conflittuali tra loro, il professionista può incontrare alcune difficoltà sotto forma di dubbio etico.

Ci sono tantissimi esempi di dilemmi che un professionista si trova ad affrontare nella propria esperienza di lavoro quotidiana. Quando possiamo dire che si comporta bene o male nell’esercizio della professione? L’avvocato deve mettere al primo posto l’interesse del cliente rappresentato o deve perseguire la giustizia in assoluto? L’impiegato amministrativo deve solo eseguire gli ordini impartiti e registrare i movimenti contabili qualunque essi siano? E’ a posto eticamente se ha eseguito un ordine per obbedienza, senza curarsi dalle conseguenze del suo agire? Il manager a cui venga dato l’obiettivo di licenziare e non condivide la decisione, farà prevalere il senso del dovere per appartenenza e fedeltà verso l’azienda, oppure seguirà la sua coscienza individuale e sociale?

 

Dai dilemmi etici ai conflitti di interesse il passo è breve, per un professionista…
Sì, propongo qui solo due casi di conflitto. il primo concerne la possibile contrapposizione tra la cura degli interessi del cliente, il rispetto delle leggi e la tutela dell’interesse pubblico. Il valore dell’obbligo fiduciario, secondo cui il professionista deve fare solo ciò che va a vantaggio del suo cliente, può entrare in contrasto con la comunità sociale. Poi c’è il conflitto tra autonomia di giudizio e rispetto della volontà del cliente. Se un cliente profano non è in grado di giudicare, allora il professionista ha il diritto o l’obbligo morale di fare ciò che ritiene giusto per il bene del cliente?

 

Il farraginoso sistema regolatorio e normativo, fatto di migliaia di cavilli, invece di frenare il fenomeno della corruzione e delle pratiche non lecite o illegali, a volte lo favorisce. Come si può uscire da questo paradosso: può bastare una semplificazione intelligente di leggi e regolamenti?

Esistono modi differenti per cercare di sviluppare l’etica, intesa come orientamento dei comportamenti professionali. Per semplicità, parliamo di due approcci diversi e complementari: quello ottativo e quello normativo: il primo scommette sulla forza trainante delle testimonianze di esempi eccellenti, che possono innescare un processo di emulazione e di proiezione, il secondo, invece, punta a generare regole chiare ed esplicite sui comportamenti leciti e quelli da evitare. Il sistema sanzionatorio collegato conta sul fatto che i provvedimenti punitivi delle trasgressioni siano un deterrente per il futuro comportamento.

C’è un approccio più giusto o più efficace in assoluto? No, non c’è la ricetta universale; Il principale errore possibile e diffuso è proprio quello di assolutizzare la validità e l’efficacia di un metodo rispetto agli altri a prescindere dal contesto.

Non dimentichiamo che il vero scopo dell’etica è orientare e stimolare il miglioramento continuo, non è azzerare il rischio che si possa verificare un evento o un comportamento improprio.

La validità dei principi etici non dipende dal fatto che sono ovunque e costantemente rispettati. L’efficacia di un metodo o l’altro dipende da alcune variabili che si determinano nella situazione specifica: la persona il cui comportamento è oggetto di osservazione può avere una percezione e reazione psicologica difforme rispetto agli stimoli (premi/punizioni) che riceve. La sanzione, ad esempio, è una sferzata positiva per alcuni, mentre ha un effetto deprimente su altri.

 

I codici deontologici previsti da numerose albi professionali, enti e associazioni sono spesso formali, disattesi o non prevedono sanzioni: come fare per renderli più stringenti e vincolanti?

Il codice etico da solo non basta, da solo è una buona intenzione e una bella facciata. Lo sviluppo di un comportamento etico generalizzato è un processo lungo che comporta cambiamenti di mentalità delle persone e di abitudini consolidate. Non si fa con un editto o con la semplice pubblicazione nel sito web di un Codice Deontologico. Il codice è utile e prezioso solo quando diventa uno strumento operativo nelle mani di un Comitato Etico responsabile di governare il processo di sviluppo dell’etica nella professione. Non mi riferisco a un Collegio Probiviri che intervenga solo in modo reattivo, quasi costretto, a fronte di caso denunciato di violazione. Penso a un organismo che si muove con atteggiamento proattivo per far crescere il livello di etica praticata, avviando iniziative continue di stimolo, controllo e ripianificazione.

Premesso che l’etica dovrebbe essere insegnata a scuola fin dalle elementari, proprio come l’aritmetica o la storia, per quanto riguarda il mondo del lavoro come si può farla diventare davvero una materia fondamentale, da conoscere e da far rispettare?

A volte abbiamo l’impressione che la nostra volontà individuale sia impotente perché troppo piccola per sfidare un sistema complesso che pratica costantemente l’indifferenza all’etica, e anzi lancia messaggi che irridono la bontà dei fautori dell’etica. Gli indifferenti cinici sono i principali nemici dell’etica.

Mi piace l’idea di finire questa intervista riportando alcuni consigli per i possibili missionari dell’etica.

  1. Partire sempre con un atteggiamento aperto per innescare la fiducia reciproca, tenendo gli occhi ben aperti a non cadere in trappole tese dai finti etici.
  2. Quando si rilevano episodi di devianza etica, fare in modo che tale comportamento divenga noto e riconosciuto come socialmente riprovevole.
  3. Costruire alleanza, iniziativa e collaborazione tra i fautori dell’etica promuovendo esperienze e testimonianze da mettere in rete.

Di Claudio Antonelli

Claudio Antonelli è consulente di Sviluppo Organizzativo, Pianificazione e Controllo Direzionale. Ha sviluppato la competenza collaborando con società di consulenza nazionali e internazionali. S’ispira all’approccio socio-tecnico e persegue lo sviluppo organico come processo di apprendimento organizzativo. Negli ultimi anni si è focalizzato sul tema della sostenibilità nelle imprese, partendo dall’etica nel lavoro professionale. E’ incaricato di docenza al Politecnico di Milano in seminari su Etica della Professione. E’ molto attivo nel mondo dell’associazionismo professionale. E’ Presidente di PIU’ Professioni Intellettuali Unite, Vice Presidente di Confassociazioni dove ha anche l’incarico di Presidente del Comitato Scientifico. In passato è stato per molti anni Presidente dell’associazione professionale italiana dei Consulenti di Direzione e Organizzazione. Ha scritto sei libri, di cui il più recente è: ETICA pane quotidiano - Concetti chiave e linee guida di sviluppo comportamenti etici nella professione Franco Angeli Editore