Sono molte le persone che, impegnate nella ricerca di una nuova prospettiva professionale, vengono contattate per colloqui conoscitivi, che purtroppo poi terminano nel deludente “le faremo sapere”.

Osservando i comportamenti di queste persone, prima come manager e leader in grandi multinazionali, e ora come coach, ho potuto riscontrare un fenomeno diffuso, inconsapevole e limitante, che è quello che io definisco attivare calamite indesiderate.

In pratica, durante il colloquio il candidato fa emergere inconsapevolmente, in alcuni atteggiamenti o nel linguaggio, dei messaggi che frenano l’entusiasmo del selezionatore. Questi schemi spesso si ripetono e quindi mantengono nel tempo, anche negli anni, il candidato bloccato (come se fosse attratto da un calamita) al lavoro attuale.

Elemento che spiazza ancora di più il candidato è che non ci siano state perplessità sul fronte tecnico, che molto spesso -anzi- è robusto e qualificante. “Ma allora cosa è successo? Perché non piaccio?”

Ciò che ha penalizzato il candidato è probabilmente una zavorra di natura non tecnica, che spesso agisce in maniera inversa al desiderio del candidato.
Più lui vuole andarsene, più la calamita si carica, meno il candidato ha successo nei colloqui, più a lungo resta ancorato al lavoro attuale.

E allora, che cosa dà potenza alla calamita, ossia cosa la rende attiva?

Come fare per spegnerla?

Ecco alcuni esempio di attivatori:
1) Il risentimento verso il proprio attuale capo. Se non gestito, ad esempio attraverso uno specifico percorso di self-coaching, il risentimento emerge nel colloquio, sotto forma di atteggiamenti e espressioni verbali: che purtroppo spesso generano una percezione da parte del selezionatore di un candidato iper-critico, che non riesce ad auto-motivarsi, che non ha una sufficiente capacità di reagire ai contesti impegnativi. Non stiamo suggerendo di mentire o di dissimulare (le incongruenze sono facili da cogliere per un selezionatore esperto), ma di arrivare emotivamente consapevoli al colloquio. Riuscire anche solo a cogliere le opportunità di sviluppo personale offerte dal contesto attuale (e anche il capo più rigido e difficile mi offre spunti per crescere), è un modo per porsi nell’intervista con uno storytelling più efficace e distintivo. Farete notare di possedere quella che è una delle caratteristiche più ricercate: la resilienza.

2) Non cogliere le sfumature e il non detto. Non riuscire a immedesimarsi nel selezionatore. Purtroppo ancora molti candidati ritengono che un colloquio abbia a che vedere con il parlare di sé e presentarsi. E se invece avesse a che vedere, forse al 60%, con la capacità di ascoltare? Ascoltare in particolare i bisogni prioritari di chi ricerca, le motivazioni che spingono all’investimento (non da poco, se teniamo conto non solo della RAL, ma degli oneri contributivi che l’azienda sosterrà ogni anno per averci), i rischi percepiti e le esigenze del management che sempre influenzano la decisione finale, anche se non sono direttamente coinvolti dalla decisione. Quindi ascoltare, e fare domande, può evitarci di passare mezz’ora a parlare di noi in termini che non interessano al nostro interlocutore o che per lo meno non lo coinvolgono come dovrebbero.

3) Il terzo attivatore, è l’eccessivo desiderio di fuga. Un colloquio di assunzione è una negoziazione. Se facciamo capire che accetteremo in tutti i casi (o quasi) perché vogliamo andarcene a tutti i costi, ci predisponiamo, come minimo, a ricevere un’offerta più bassa del previsto, se non addirittura a perdere l’opportunità. Anziché illustrare la situazione in termini sistematicamente negativi, soprattutto il lato dell’apprendimento continuo (“All’inizio ho appreso molto ma ora mi sento fermo”), presentatevi al colloquio con la consapevolezza degli stimoli che il vostro attuale incarico ancora vi trasmette ogni giorno. Magari non saranno occasioni perfette e strutturate, ma senza dubbio, pensandoci a mente tranquilla, ne troverete. Pensate come se foste al posto del selezionatore: voi scegliereste una persona che dichiara che “negli ultimi 2 anni”, ad esempio, “non sta imparando nulla”, o che “non riceve stimoli”. Estremizziamo per capire: comprereste un’auto che non è stata manutenuta per tanto tempo? Non vi verrebbe il dubbio che l’auto abbia qualche difetto? O che non valga la pena metterci le mani?
Aiutare le persone a presentarsi nei colloqui con uno storytelling (autonarrazione) efficace per fare emerger il loro valore, è la mia passione professionale.
Se il tema è di tuo interesse, possiamo confrontaci di persona, a Milano il 20 Luglio. Per i dettagli del workshop: info@freenautabar.it

Di Paola Ricca

Certified Executive Coach, Senior Training Consultant. Ha ideato un metodo di coaching che si ispira alle neuroscienze e utilizza le mappe mentali, l’autonarrazione e il potere delle immagini e delle metafore. Propone interventi veloci, di pochi incontri focalizzati sul risultato - anche a distanza via Skype, come punto di partenza/fondamento per un percorso autonomo di self coaching.