Secondo i dati ISTAT due terzi dei giovani tra i 6 e i 14 anni utilizza abitualmente il videogame. Si tratta di un fenomeno particolarmente complesso, da cui derivano correnti di pensiero opposte.

  • da una parte il videogioco genera attrazione e ne vengono esaltate le qualità, non solo di intrattenimento, ma anche come occasione di crescita
  • dall’altra, all’opposto, esso viene demonizzato e stigmatizzato.

 

Cominciamo dall’inizio. Perché si videogioca? I maggiori studi  effettuati  rendono possibile delineare due macro categorie di risposte: lo svago e la socializzazione. Vediamo.

  • Il videogioco come svago. Il divertimento appare essere una delle principali ragioni esposte. L’interattività, elaborazione della grafica e del design consentono ai ragazzi di passare il tempo in modo dinamico e non monotono. Le modalità di gioco non sono più ripetitive, al soggetto è richiesto di mettersi alla prova, tracciando percorsi ogni volta differenti, potenziando le proprie abilità, perseguendo dei veri e propri obiettivi che gli consentono di raggiungere traguardi personali. Un aspetto centrale è dato dalla possibilità di stimolare la fantasia, vivendo in prima persona delle avventure ambientate in luoghi ideali. Come si può resistere all’opportunità di incontrare gli alieni, di preparare pozioni magiche, di guidare una famosa auto da corsa o di giocare con la propria squadra del cuore? Tutto ciò non risulterebbe possibile nella realtà, ma unicamente in un mondo virtuale, che consente al giovane videogamer di svagarsi nei modi più svariati.
  • Il videogioco come strumento di socializzazione. Tale aspetto è stato ampiamente dibattuto nel corso degli anni e tutt’ora non si è giunti ad un’opinione univoca. Il videogame spinge a socializzare o ad isolarsi e chiudersi nel proprio mondo fittizio? Nonostante la letteratura non presenti un parere omogeneo, da importanti lavori svolti intervistando i protagonisti (i ragazzi), è sembrato che tramite il gioco sia possibile allargare i propri orizzonti amicali, scambiarsi opinioni e consigli, sentendosi parte di un gruppo.

 

Attualmente non è raro trovare riportate sul giornale notizie di cronaca o attualità che vedono come protagonisti i videogiochi. Certamente l’opinione pubblica si spacca in due: nuove tecnologie in grado di aiutare a crescere le nuove generazioni o mostri creatori di violenza?

Appare evidente la natura multicomponenziale del videogaming come attività costruttiva per certi versi, ma potenzialmente dannosa per altri. Se è vero che un uso indiscriminato del videogame può condurre ad esiti altamente dannosi, il videogioco, però, non può essere unicamente accusato. Esistono infatti molteplici studi che ne evidenziano le numerose potenzialità e quindi la sua valenza educativa.

 

La letteratura ha dato un nome a questo fenomeno ambivalente: paura-attrazione per il bambino tecnologico. Intendendo con questo termine quel bambino che si dimostra tecnologicamente superiore ai propri genitori, delegittimandoli così di una parte del loro potere. E invertendo le posizioni della relazione asimmetrica, che solitamente vedrebbe nell’adulto il detentore del sapere.

 

Il compito che spetta all’adulto non è solamente quello (seppur imprescindibile) di mettere dei limiti di tempo e di contenuto all’attività del videogiocare, ma anche quello di costruzione di senso dell’attività stessa. Coach dei figli nel gioco. Coach, e non insegnante.

Purtroppo per le famiglie è facile cadere nell’errore definibile come ‘inversione del ruolo tutoriale’, in cui lo squilibrio di competenze a favore del genitore si ribalta, mettendo il ragazzo in una posizione di superiorità. Egli, infatti, essendo nato e cresciuto nell’era dell’elettronica, si troverà probabilmente più a suo agio con questo medium, dimostrando anche maggiori competenze che, però, non corrispondono ad una maggiore maturità psicologica e che quindi non lo proteggono adeguatamente dai rischi connessi al videogiocare.

 

Sarebbe quindi auspicabile che l’adulto passasse del tempo a supervisionare l’attività ludica del figlio, stimolando la riflessione e indirizzando le scelte di gioco. Attraverso domande più che spiegazioni. Da coach, da tutor, da persona capace di allargargli la visuale.

I genitori dovrebbero far sì che i videogiochi possano diventare un’occasione di confronto e di dialogo. Addirittura, in alcune circostanze (ad esempio adoperando giochi sportivi o di squadra, particolarmente dinamici, come quelli offerto dalla Wii), il videogiocare potrebbe rivelarsi un comune interesse famigliare, che permetterebbe di svolgere delle attività tutti assieme. Andando a rinsaldare i legami e consentendo anche agli adulti di divertirsi, poiché anche essi  potrebbero sperimentare questo modo una situazione ludica virtuale: in cui il gioco si fa reale e genera gradi di immersione simili a quelli presenti nel gioco del più giovani.

 

I videogiochi, quindi, non andrebbero demonizzati né, tantomeno, considerati territorio unico delle nuove generazioni.  Al contrario, i genitori possono accompagnare i propri figli verso un uso ponderato e consapevole delle nuove tecnologie, avvalendosi –ad esempio- dell’ausilio di standard di riferimento. Tra questi, il sistema PEGI è il primo sistema Europeo di classificazione di videogiochi in base all’età, creato nel 2003 dall’ ISFE (International Software Federation of Europe), che permette la classificazione dei videogiochi in base all’età e che consente ai genitori di controllare il contenuto del gioco ed evitare che il figlio utilizzi quelli non adeguati, venendo così esposto a scene da lui non comprensibili o per lui dannose.

 

Per chi vuole approfondire:

PEGI Pan European Game Information

Bezzi C. & Di Carlo S. (1987). Bambini, video e kappa byte. Infanzia e cultura dell’immagine. Franco Angeli, Milano.

De Kerckhove D. (1995). La pelle della cultura. Un’indagine sulla nuova realtà elettronica, Costa e Nolan, Genova.

Greenfield P. (1985). Mente e Media. Gli effetti della televisione, dei computer e dei video-giochi sui bambini. Armando Editore, Roma.

Di Chiara Altamura e Arianna Gianotti

Chiara Altamura, Arianna Gianotti, psicologhe, psicodiagnoste e psicoterapeute sitemico-relazionali e della famiglia. Si occupano di coaching sistemico, sostegno all’individuo, potenziamento e massimizzazione delle risorse personali con particolare attenzione a chi si trova in una fase di cambiamento della propria vita (orientamento scolastico e inserimento professionale) oppure in una condizione di fragilità (disabilità, disoccupazione). Lavorano come psicoterapeute in contesto clinico privato e in collaborazione con Enti pubblici della Lombardia, a livello individuale, di coppia, della famiglia e di gruppi. Propongono percorsi formativi in aziende e istituti scolastici e da diversi anni collaborano con il C.I.P.M. (Centro Italiano per la Promozione della Mediazione). psicologia.informazioni@gmail.com