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Sembra incredibile, ma è stato ampiamente dimostrato che quando un aereo precipita oppure in occasione di molti disastri, quale ad esempio quello della British Petroleum o nei disastri aerospaziali del Challenger e del Columbia, spesso un dipendente di livello operativo o comunque inferiore era in possesso di informazioni che avrebbero consentito di evitare l’incidente o perlomeno di ridurne la portata, ma le informazioni non sono arrivate sino ai livelli superiori oppure sono state ignorate. Ne parla il famoso psicologo sociale e delle organizzazioni Edgar Schein nel suo recente libro <L’arte di far domande – quando ascoltare è meglio di parlare>, pubblicato in Italia da Guerini Next, che evidenzia come, parlandone in questi casi con i subordinati, questi ultimi spesso ammettevano di aver scelto di non trasmettere le informazioni negative ai capi per non irritarli con notizie potenzialmente sgradite.

Ne scrive anche Daniel Goleman nel suo famosissimo <Leadership emotiva>, citando il caso del pilota di linea Melburn McBroom, tristemente noto per il suo carattere dispotico. Un giorno del 1978, mentre stava atterrando a Portland, Mc Broom si accorse di un problema al carrello di atterraggio. Cercò di sbloccare il meccanismo e di guadagnare tempo continuando a sorvolare la pista ad alta quota, ma senza accorgersi che nel frattempo i serbatoi dell’aereo si stavano svuotando. I copiloti erano così terrorizzati dalle sfuriate del loro capo da non avere il coraggio di avvertirlo del pericolo imminente. L’epilogo fu lo schianto al suolo dell’aereo e la morte di dieci persone. Le statistiche –sostiene Goleman- evidenziano che quando un aereo precipita, nell’80% dei casi il problema è legato a errori umani che si sarebbero potuti  evitare, soprattutto se il personale fosse stato più affiatato.

In uno studio sulle équipe chirurgiche specializzate nei delicatissimi interventi a cuore aperto (<Teaming: How Organizations Learn, Innovate, and Compete in the Knowledge Economy> San Francisco, Jossey-Bass, 2012), la prof. Amy Edmondson ha riscontrato che alcune svolgono molto meglio di altre queste operazioni e che vi è un particolare nella sua analisi che è risultato centrale: ha infatti notato che in mensa i componenti delle équipe dai risultati migliori tendevano a sedersi tutti nello stesso tavolo, mentre in altre équipe erano divisi in base al livello gerarchico e/o al ruolo. Evidentemente alcuni avevano deciso che investire del tempo insieme agli altri componenti della squadra anche al di fuori della sala operatoria era più importante che pranzare con i propri pari. In questo modo avevano avuto l’opportunità di conoscersi meglio e di personalizzare il loro rapporto.  Dallo studio della prof.ssa Edmondson emerge in particolare che i componenti delle équipe più performanti avevano imparato le tecniche in modo collegiale, riducendo allo stesso tempo le differenze di status e consentendo a ciascun componente di percepire l’interdipendenza di tutti con tutti.

 

Ciò che quindi un coach può e deve fare su questo tema, lavorando con un manager, è verificare:

  • Quanto tempo ed energie quest’ultimo dedichi alla costruzione delle relazioni (quanto è capace di scorgerne la necessità) e quanto invece ad imporsi sull’interlocutore.
  • Quanto all’ascolto dei suoi collaboratori (gli capita di chiedere consiglio a un collaboratore sul da farsi?).
  • Quanto è riuscito a personalizzare il suo rapporto con i collaboratori (li chiama ad esempio per cognome o per nome?), facendo anche qualcosa di informale con loro (ad esempio pranzando insieme).
  • Quanto è consapevole del proprio stile relazionale (linguaggio del corpo, tono di voce, sguardo ecc.) e dei propri sentimenti che entrano in gioco nelle analisi e nell’agire quotidiano.
  • Quanto parla di sé ai suoi collaboratori.

Tutto ciò tenendo conto della cultura dell’organizzazione e delle persone che vi lavorano ma senza che quest’ultima continui ad essere un vincolo insormontabile. Per avere team che funzionano, in tutti i sensi.

La domanda più difficile, ma anche più importante, che un manager dovrebbe rivolgere ai propri collaboratori è: ”se stessi per commettere un errore me lo fareste notare?”.

E’ sicuramente un bell’esercizio che possiamo proporre ai manager più attenti a questi temi, nella consapevolezza che in un mondo sempre più tecnologicamente complesso, interdipendente e culturalmente diversificato, diventa sempre più importante, ma anche più complesso, costruire relazioni che consentano di eseguire con successo un’attività.

Di Attilio Leoni

Opera attualmente come manager in ambito commerciale presso l'Azienda Trasporti Milanesi Spa dopo aver maturato una lunga esperienza come responsabile della formazione e più di recente nelle Operations. In precedenza è stato responsabile della selezione e dello sviluppo, si è occupato di gestione del personale e di comunicazione interna. Ha curato nel 2015 con M.E. Salati la pubblicazione del libro "Neuroscienze e Management" e nel 2021 del libro "Neuroscienze e sviluppo (del) personale", scrive inoltre articoli di management su periodici e siti online. In collaborazione con l'Istituto Francese di Archeologia Orientale del Cairo e con l'Università Statale di Milano ha svolto attività di archeologo e papirologo.